Recensione: Leftoverture
Parliamo dell’album della svolta, che dà ai Kansas la notorietà di cui oggi godono, vendendo oltre tre milioni di copie. Si tratta del quarto studio album, un capolavoro dallo stile personalissimo che è divenuto un riferimento per molte rock band.
Fondendo la complessità del prog-rock inglese con il sound country americano che lo stesso nome del gruppo rappresenta, i Kansas hanno saputo confezionare delle hit straordinarie, annoverabili nelle playlist AOR di tutti i tempi.
Leftoverture è un rebus dal significato impenetrabile, che culmina addirittura con una suite in cinque parti intitolata “Magnum Opus” che presenta titoli che garantiscono questa enigmaticità, come “Father Padilla Meets the Perfect Gnat” e “Release the Beavers”.
La conclusiva operetta è in stretto contatto con la opener, “Carry On Wayward Son”, il più grande singolo partorito dalla mente dei Kansas, una song capace di essere ridondante, potente, risibile e catchy al contempo.
Le composizioni, d’altra parte, non risultano particolarmente complesse, ritmicamente o armonicamente, così abbarbicate al boogie rock che è alla base di tutta la produzione del gruppo americano. Si susseguono quindi brani potenti, carichi d’armonia e aiutati dall’enorme riffing che fa di ogni pezzo un monolito sonoro dall’impatto sorprendente. Dai cori a cappella al pizzicato leggero, dal ritornello accattivante e arioso alle vocals istrioniche, i passaggi sono davvero gustosi, resi con grande classe e scioltezza. Questa è la vera progressione, e per quanto i Kansas siano grandi e abbiano riscosso un successo planetario, rimangono un gruppo decisamente sottovalutato, a causa dell’umiltà che li ha sempre tenuti lontani dal rivaleggiare ovunque. Non si può davvero criticare un album di questa portata per il fatto che i Kansas siano poco ambiziosi, visto che almeno compositivamente fanno dell’evoluzione il loro biglietto da visita, e se non è ambizione questa…
Non è neanche giusto attaccare il disco perché il suo concept è così imperscrutabile, visto che ci sono elementi a sufficienza per farne un album grandioso, non fosse altro che per le capacità tecniche del violinista Robby Steinhardt, sue le parti più country-folk, o per l’eclettismo di Kerry Livgren (chitarra, pianoforte, clavicembalo e synths), o ancora per la potente voce di Steve Walsh (anche all’organo, pianoforte, vibrafono e synths). Completano la band una sezione ritmica impressionante composta da Phil Ehart (percussioni) e Dave Hope (basso). Ciliegina sulla torta, la chitarra elettrica di Rich Wiliams. Dovrei dilungarmi troppo per citare tutte le band in cui questi straordinari musicisti hanno militato dopo il primo scioglimento (1986), ma tanto per fare qualche nome importante nel panorama metal: Malmsteen, Scorpions, Steve Morse e Magna Carta.
Tracklist:
1. Carry on Wayward Son
2. The Wall
3. What’s on Your Mind?
4. Miracles Out of Nowhere
5. Opus Insert
6. Questions of My Childhood
7. Cheyenne Anthem
8. Magnum Opus