Recensione: Legacy

Di Eric Nicodemo - 21 Agosto 2015 - 8:20
Legacy
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2015
Nazione:
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80

Il presente e il passato sono sempre stati legati a doppio filo nella carriera dei Praying Mantis, uno degli act più promettenti dell’intera NWOBHM, fondato nel 1973 dai fratelli Tino (chitarra) e Chris Troy (basso), di origine greco-ispanica (meno conosciuti come Tino e Chris Neophytou).

Non è un caso che la copertina del nuovo album “Legacy” voglia richiamare l’artwork del primo capolavoro, entrambe realizzate dell’ispiratissimo Rodney Matthews (reso celebre dalle indimenticabili cover dei dischi dei Magnum). Qualcosa è, però, cambiato: la Mantide di oggi è tecnologica e sci-fi, quasi a suggerire un collegamento tra vecchio e recente corso, intrapreso a partire da “Predator In Disguise” (1991). Insomma, la volontà è di ritornare ai fasti del passato coniugando nuove influenze, tentativo condiviso da molte band negli ultimi tempi.

 

Passato e presente si incontrano

Per compiere l’impresa e dare un tocco evocativo, più vicino a un certo metal teutonico (senza perdere la melodia innata), Tino e Chris arruolano il misconosciuto cantante John Cuijpers. E qui, risiede il secondo elemento chiave per giudicare il lavoro. Prendiamo ad esempio l’opener, “Fight For Your Honour”: manca il main vox avvolgente tipico dei fratelli Troy, sostituito da un cantato più epico e manierista. Al di là di questo, l’opener mantiene alcuni tratti distintivi della Mantide, primo fra tutti gli abituali assoli energetici, dall’alto tasso melodico. Dall’altra parte, compaiono gli elementi AOR di “Predator In Disguise” e “A Cry For The New World” nelle vesti di tastiere e synts.

Il risultato è un ibrido, dove l’elemento solenne e teatrale (in realtà già presente in “Forever In Time” con Tony O’Hora al microfono) prevale e scalza l’anima originaria della band. Ciò appiattisce all’inizio un po’ la proposta, facendola accostare alla nutrita e indistinta schiera delle band pseudo epicheggianti, traboccanti di imprese eroiche (tematiche che, come il titolo della canzone, incominciano a saper di stantio).

Stacco e “The One” non ha nulla a che vedere né con l’onore cavalleresco né con la NWOBHM: qui domina un’indole tutta AOR (a tratti simil-Strangeways), che questa volta colpisce nel segno grazie al refrain inebriante quanto l’infatuazione della donna amata (per l’appunto, “The One” ovvero “la sola” del titolo). L’efficacia del ritornello è tale che il lead vox riesce ad adattarsi ai suoni caldi e a rendere l’impatto emotivo, che sarebbe stato maggiore con la calda voce di Chris. Per il resto, una prova da brivido.

L’intreccio di generi riappare evidente in “Believable”: se il post-chorus è un concentrato di puro melodic hard rock (molto riuscito), il ritornello centrale gioca con backing vocals e cori altisonanti. Ottimo brano che dividerà i fan, alcuni dei quali preferiranno la prima parte catchy del repeat mentre tutti gli altri punteranno sulla eroicità del chorus…

Certo, il 1981 è ormai lontano e gli anni Novanta hanno portato nuove sonorità, ciò non toglie che “Legacy” dia la sensazione di un collage di valore, in cui il combo fa la summa delle proprie esperienze e le miscela in canzoni quali “Tokyo”, finestra su passato e presente della Mantide. La track si apre con entusiasmanti premesse (le chitarre rampanti) e riesce ad ammaliare con un tune passionale, trasportato dai fedeli vocals. Il bridge è in puro stile Praying Mantis, dalle sonorità argentine e squillanti.

L’atmosfera si fa più sofferta con il midtempo “Better Man”, dove la condizione umana è il soggetto principale come al tempo di “Beads Of Ebony”. Sforzo lodevole, soprattutto per Cuijpers che, tra accordi incedenti e qualche ninnolo tastieristico, si trova a suo agio nell’ambient ricco di pathos, fornendo un’interpretazione vibrante.

Con “All I See” si parla ancora il linguaggio dell’AOR più ispirato, generoso di melodie lussureggianti, a dimostrazione che abbiamo visto molto ma non abbiamo ascoltato ancora tutto. La tipica hit da sparare nei programmi radiofonici.

La pomposa “Eyes Of A Child”, tra un lieve tocco di tastiere e accordi potenti, dirotta il combo nuovamente su lidi teatrali, appropriati alla magniloquenza del singer e prova di un sound ormai contaminato, dimentico delle proprie origini NWOBHM.

A questo punto, quello che ci vuole è proprio una canzone in vecchio stile come “Runner”, che corre sospesa tra hard’n’roll e melodic rock, per darci una scossa di adrenalina… senza rifiutare l’aiuto della tecnologia. Il vero vanto di “Runner” è, però, la conclusione fulminea ed esplosiva, grinta che rievoca vecchie memorie.

Il titolo (ancora una volta programmatico) di “Against The World” suona imperioso quanto l’ascia e l’accorato grido del coro, vero fulcro del brano. Il singer vibra con enfasi teatrale e forse un po’ troppo magniloquente, per chi come il sottoscritto è legato agli esordi di carriera.

“Fallen Angel” ha invece tutto il flavour iniziale di “A Cry For The New World” e “To The Power Of Ten”. Leggero ed esile, il coro ha un mood gradevole, distante dalle atmosfere drammatiche di “Nowhere To Hide”. Sempre frizzanti le incursioni del guitarplay, spericolato con grazia e tonalità eleganti, mai superflue (e qui, qualcuno dovrebbe prendere appunti…).

Tempi veloci e cori slanciati per l’ottima closer “Second Time Around”, il tutto sovrastato dall’ugola tonante dell’imperioso vocalist.

Da questo mix di epicità e AOR ne deriva un risultato finale vario e personale, che si distanza e si evolve ulteriormente dallo stile originario di “Time Tells No Lies”: l’eredità del passato è ormai lontana, per questioni legate più a scelte stilistiche e recenti influenze di Tino e Chris che di una carenza effettiva nel songwriting, di cui i Praying Mantis non hanno mai veramente sofferto. A riprova di quanto detto, il nuovo platter è ben scritto, suonato e arrangiato, capace di creare melodie estasianti grazie alla chitarra del leader, coinvolgente e sentimentale come pochi musicisti. I picchi di scrittura coincidono con le canzoni meno imperiose e più AOR/pomp rock oriented (“The One”, “Tokyo”, “All I See” e “Runner” su tutte). D’altronde, gli stessi Troy definivano il proprio complesso come una formazione improntata sulla melodia più che sull’irruenza e sulla potenza sonora.

In “Legacy”, si aggiunge l’aspetto teatrale e pomposo, accondisceso dall’estro del nuovo singer, che fornisce una prestazione valida, sebbene i migliori interpreti vocali rimangono tuttora proprio gli stessi Troy (per non parlare di Steve Carroll in “Cheated” o il sottovalutato Colin Peel, cantante in “A Cry For The New World”, per chi scrive episodio cardine del periodo post reunion). “Legacy” dimostra, inoltre, una certa maturità negli arrangiamenti: innanzitutto, evita la dispersività di “The Journey Goes On”, affollato da troppe personalità al microfono. In secondo luogo, segna un netto miglioramento nell’uso dei synts e delle tastiere rispetto a “Predator In Disguise”, keyboards che non appaiono mai invadenti o fuori luogo ma sono inserite allo scopo di introdurre ed arricchire il palinsesto musicale piuttosto che spodestare la chitarra dal proprio ruolo di riffmaker.

In definitiva, coloro che amano il melodic (heavy) rock più energetico e raffinato ne rimarranno soddisfatti. Se, invece, fate fatica a concepire la Mantide oltre il suo primo exploit, dopo il secondo ascolto apprezzerete “Legacy” e forse, nel frattempo, Tino e Chris riscopriranno le proprie radici hard rock. Per adesso, “accontentatevi”…

Eric Nicodemo

 

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