Recensione: Legends
Esordio al fulmicotone per i losangelini NovaReign, che a otto anni dalla fondazione e dopo qualche problema di line–up vedono finalmente pubblicato il loro “Legends”, introdotto da una copertina intrigante ma anche sufficientemente cafona. I nostri, che si dichiarano influenzati da gruppi quali Dragonforce, Angra, Iron Maiden e dalle complesse strutture di Dream Theater e Symphony X, punteggiano di tanto in tanto le loro canzoni di elementi jazzati o fusion per donare ai loro brani, già di per sé piuttosto cangianti, qualche scintilla di estro in più, dando vita a un power prog (più power che prog, a dire il vero) adrenalinico e d’impatto, caratterizzato da prolungati assalti delle chitarre e da ritmi perlopiù sostenuti. La prima cosa che mi ha colpito dando un’occhiata all’album del quintetto d’oltreoceano è stata la durata delle canzoni, mediamente piuttosto importante: non sono poche, infatti, le tracce che superano gli otto minuti, e solo una – che poi si scoprirà poco più che un intermezzo rilassato dai toni quasi ambient – scende sotto i cinque, per una durata complessiva di poco più di un’ora. Robetta di un certo peso, quindi, ma non è detto che un album lungo sia anche un album bello; ad ogni modo, visto che a me le canzoni di una certa corposità in genere piacciono, decido di accettare la sfida: vediamo di pigiare play e vedere un po’ cosa ci hanno preparato i nostri amici.
L’attacco svolazzante e neoclassico di “Call of the Storm” (una volta tanto senza la solita e fin troppo spesso inutile intro strumentale fintamente atmosferica!) cede rapidamente il passo alle furiose scorribande delle chitarre, vero cuore delle composizioni con le loro sbrodolate di note a velocità fulminanti e i duelli a cui i fan dei Dragonforce sono ormai abituati; la sezione ritmica è in palla e garbatamente debordante, pronta a pompare come si deve ogni vagito delle sei corde, mentre una voce squillante ma versatile, capace di amalgamarsi perfettamente al mood di ogni canzone tra un acuto e l’altro, sovrasta il muro di suono appena descritto. La componente melodica non manca, destreggiandosi sul tappeto di riff aggressivi senza prendere troppo il largo e mantenendo il tenore della traccia entro i limiti di guardia senza sforare nella becera sboroneria. Ottimo biglietto da visita. Con la successiva “Mace of a Fist” si prosegue con la carica delle melodie arrembanti ed eroiche e dei riff poderosi, ma i nostri inseriscono nell’amalgama brevi quanto sporadici rallentamenti per tirare il fiato; il primo assolo maideniano introduce la bella ma corposa sezione strumentale che, in pratica, occupa tutta la parte centrale della canzone, alternando parti briose ad altre rombanti e facendosi via via più aggressiva, mentre un nuovo passaggio di profumi maideniani apre al ritorno della voce giusto in tempo per il finale. “Beyond the Cold”, col suo andamento determinato, è una cavalcata classica, inframezzata però da un assolo dal sapore quasi fusion che ne spezza per un attimo l’andamento propositivo prima di tornare a sciorinare architetture chitarristiche ubriacanti, mentre con la successiva “Heavy Heart” si respira aria carioca, seppur filtrata dal gusto losangelino per la velocità; entrambe le tracce scorrono egregiamente, grazie a un andamento risoluto e ottime melodie che, però, sanno un po’ di già sentito. “Skyline” porta all’eccesso alcuni di questi elementi, alternando momenti quasi compassati a sferzate vocali dispensate da altezze vertiginose, il tutto sorretto da un’impalcatura dinamica e ruvida al tempo stesso; il rallentamento dona una certa solennità al pezzo e apre una sezione strumentale inizialmente marziale, quadrata, carica di una magniloquenza a tratti un po’ sbruffona, inframezzata da un assolo frenetico che poi si stempera in un andamento più rockeggiante e chiusa da un crescendo ritmico sempre più insistito; suoni effettati reintroducono la voce giusto in tempo per il ritorno del trionfalismo che, unito a un certo gusto hard rock già incontrato, ci accompagna fino al termine del pezzo.
“To Wander the Stars” altro non è che l’intermezzo cui accennavo in apertura, fatto di semplici melodie e rumori di fondo su cui s’inerpica un arpeggio rilassato di chitarra acustica, che scorre senza problemi ma risulta a conti fatti fin troppo estraneo al resto delle composizioni. “The Builder”, invece, torna alla carica giocando, però, con velocità meno frenetiche, un andamento più anthemico e, di nuovo, una propensione per melodie proprie dell’hard rock, che sfumano la carica dei nostri donandoci una traccia leggermente diversa da quelle proposte finora, mentre con la successiva “Black as the Dead of Night” e il suo attacco strumentale al fulmicotone si ritorna alle velocità che ci hanno accompagnato per buona parte di questo “Legends”. Il gruppo torna a ruggire tenendo alti sia il tasso tecnico (il valore strumentale del quintetto non si discute) del pezzo che la voglia di far scapocciare furiosamente i fan, sparando melodie trionfali su un sottofondo di riff mentre David fa, come al solito, il diavolo a quattro con le sue corde vocali richiamando a più riprese Bruce Dickinson; il rallentamento centrale che prelude la solita guerra di assoli introduce una spruzzatina fugace di melodia mediorientale, che purtroppo non viene sviluppata, mentre nel finale si torna a pigiare con insistenza il tasto del trionfalismo spinto.
Chiude “Legends” la title-track, canzone corpacciuta e introdotta da una partenza funambolica in cui convivono melodia e ritmo; anche qui, la parte centrale della canzone è occupata da una sezione strumentale compatta e robusta, in cui torna a farsi notare un certo amore per i Maiden più epici, mentre la seconda parte del brano gioca con i ricami delle chitarre, che accompagnano la voce attraverso brusche accelerazioni e, di nuovo, sprazzi trionfali, chiudendo l’album con un finale concentrico molto gradevole.
Tirando le somme, non posso che giudicare positivamente questo esordio: “Legends”, nonostante una certa lunghezza, scorre molto bene e soprattutto diverte, è suonato con notevole perizia e gusto ed è capace di trasmettere la giusta carica grazie a una proposta decisa e cosciente dei propri mezzi che, nonostante non sprizzi personalità e carisma da tutti i pori, riesce comunque a sfaccettare la propria proposta quanto basta con una godibilissima alternanza di sapori, amalgamando elementi diversi e ponendosi come solidissima base su cui costruire un bel futuro. Personalmente ritengo che il gruppo dia il meglio nelle canzoni più lunghe, sbizzarrendosi con gli inserimenti strumentali di cui è decisamente padrone per spezzare un po’ la monotonia dei “normali” assalti chitarristici, ma ammetto che potrebbe essere il mio amore per le canzoni lunghe e articolate a parlare. Ad ogni modo un gruppo da tenere d’occhio, a maggior ragione se siete amanti del power metal più tirato.