Recensione: Legends
Esistono cose che rimangono sempre uguali o, perlomeno, fedeli a se stesse in una serie di caratteristiche. Un esempio lampante nel nostro paese può essere la Fiat Panda che è rimasta sempre uguale, sempre la stessa dal 1980 al 2003.
Tuttavia può capitare che, inaspettatamente, queste cose possano cambiare o subire delle modifiche che ci lascino spiazzati così come accadde alla stessa Panda che nel 2003 si vide oggetto di un forte restyling cambiandone oltre che i connotati pure l’attitudine.
Nella musica questo discorso ha delle similitudini che possono essere accostabili al contesto sopra esposto e i Majesty possono essere utilizzati come esempio pratico.
I defender tedeschi da un ventennio sono fieri portabandiera di quella frangia metallica più oltranzista tedesca circa la fiamma ardente del true metal; nati sotto il segno del martello di Di Maio e Adams (entrarono pure a far parte del Magic Circle Music cambiando moniker da Majesty a Metalforce per poi fortunatamente tornare sui loro passi), il sound della band come prevedibile si è sempre basato su un heavy metal roccioso e senza fronzoli, duro e puro senza un briciolo di contaminazioni, ciò che amiamo definire trve metal, appunto, registrando dischi più o meno riusciti che si basavano pedissequamente su ritmiche possenti, riff taglienti con un’alternanza sempre equilibrata tra mid tempos e fast songs.
Col passare degli anni la band cresce, matura ma il sound rimane sempre lo stesso, contraddistinto dalla particolare ugola del singer e mastermind Tarek “Metal Son” Maghary, fondatore e unico superstite della creatura che registrò il debut album Keep It True.
Tuttavia come la Fiat Panda, pure per i Majesty arrivò il momento di fare un restyling del carrozzone e se con il non esilerante Rebels del 2017 che faceva intravedere dei cambiamenti sia per quanto riguarda il layout della cover art così come del sound della band, più moderno e pompato, la svolta vera e propria arriva con questo nuovissimo Legends uscito a fine giugno via Napalm Records.
Come fu per la più famosa band degli ex quattro cavalieri di San Francisco col suo controverso disco del 1996, pure in questo lavoro, per la prima volta la band cambia il suo storico logo impresso nella copertina in favore di uno più lineare e moderno perdendo sì di originalità ma che si sposa bene con la copertina oscura e apocalittica totalmente diversa da quelle dei dischi precedenti fungendo da monito per ciò che contiene questo disco.
Legends rappresenta la chiave di svolta dei Majesty, un lavoro totalmente diverso dal resto della discografia che funge da spartiacque tra vecchio e nuovo senza mai rinnegare comunque la componente più power della band, anzi, in questo lavoro è proprio questa a venire innalzata all’ennesima potenza sacrificando totalmente la vena più rozza e classicamente heavy che caratterizzava la band sino a qualche anno fa.
E’ un bene oppure un male? Di sicuro non si può parlare di band venduta al music business essendo i Majesty stati sempre in una fascia media di mercato; questo Legends potrebbe però fargli fare un balzo in avanti non indifferente grazie alle varie soluzioni messe in atto in maniera assolutamente saggia e intelligente.
Legends è per noi il lavoro più maturo e migliore che i ragazzi potessero scrivere oggi e la cosa bella è che non c’è nulla fuori posto, tutto suona fresco senza mai rinnegare le origini della band ma lo fa alzando l’asticella qualitativa inserendo una serie di elementi che di sicuro sono molto più familiari a band come Bloodbound o i più mainstream Sabaton senza però mai eccedere in orchestrazioni così palesi e marcate.
L’inserimento delle tastiere funge un ruolo determinante nell’economia del disco fungendo da collante tra la nuova e la vecchia era, riempendo e abbellendo le composizioni e dotandole di quella melodia più catchy che mancava alla band che, finalmente, può strizzare l’occhio a un bacino di utenza sicuramente più ampio uscendo allo scoperto dalla nicchia esclusivamente underground di cui ha sempre fatto parte.
Non basta un rinnovato logo e un nuovo approccio stilistico, pure il singer Tarek Maghary si presenta con un nuovo look dal capello corto e ripulito ma con l’anima orientata sempre a pianeti di metallo e ghisa. E’proprio lui il vero mattatore della fiera grazie al suo particolarissimo timbro vocale che esula dalle note alte in favore di un registro medio e spinge tutto verso la melodia mai così esasperata come in questo disco.
Pregevole il lavoro delle asce di Hadamovsky e Knorr sia ritmicamente che dal punto di vista solistico (ogni song è abbellita da solos, in alcuni casi, davvero pazzeschi) facendo il diavolo a quattro con riff affilati come spade e ruggenti come draghi.
Ma è tutto oro ciò che luccica? In questo caso ci permettiamo di dire si, ovviamente abbiamo a che fare con un disco che non inventa niente di niente e si limita a fare la voce grossa in un contesto forse addirittura inflazionato; quando però la qualità contenuta in cinquanta minuti di puro metallo è di cotanta grandezza non ci si può esimere dall’esserne entusiasti.
Dieci inni al metallo che ti prendono di petto e ti rimangono in testa dopo un singolo ascolto e se le più catchy We Are Legends e Wasteland Outlaw sono dei veri e propri inni di metal melodico di pregiata raffinatezza epica, non mancano le mazzate come la tastierosa Mavericks Supreme, la opener Rizing Home e la tiratissima Last Brigade.
C’è spazio pure per la bellissima Words Of Silence, perfetto esempio di power ballad con un retrogusto Queeniano a coronamento di una prova così generosa ed eterogenea e di elevatissimo spessore del combo tedesco.
Brani come Burn The Bridges o Church Of Glory, piacevoli e riusciti pur non essendo dei capolavori, mettono in evidenza il lato più tastieroso e ruffiano, se così si può definire, della band con ammiccamenti a sonorità più accessibili e di immediata assimilazione senza mai perdere personalità ma sottolineando, grazie a una produzione decisamente più bombastica e patinata, la volontà ferma e decisa di un totale cambio di rotta.
Legends suona fresco e scorre via che è un piacere, facendo si che una volta terminato non si esiti un attimo a schiacciare nuovamente il tasto play. Questo nono platter inaugura una nuova era per i Majesty presentandoli sul mercato con un lavoro di rottura col passato, per certi versi coraggioso, che potrebbe sì far storcere il naso alla frangia dei fan più ortodossi della band ma che fa li approcciare in punta di piedi sul mercato sotto una nuova veste che calza decisamente bene. Non potevamo aspettarci di meglio da una band che, rimanendo sempre coerente a se stessa è riuscita ad osare centrando in pieno il bersaglio innovandosi e rinnovandosi.
Bentornati Majesty.