Recensione: Leonardo: The Absolute Man
These fleeting moments of sound are gone
Yes, gone forever
You won’t remember the work for you I made
This aria I play today
condemned by your silence
A silence louder than the earth
so deafening that it hurts
(Leonardo in “Shaping The Invisible”)
Gli anni intorno all’inizio del nuovo millennio hanno dato alla luce opere rock memorabili: pensiamo ai primi due capitoli Avantasia, apoteosi del power metal anni Ottanta-Novanta, ai due Universal Migrator di Arjen Lucassen, al sommo Scenes From A Memory dei Dream Theater, al gioiellino Snow degli Spock’s Beard e, infine, al capolavoro di Trent Gardner che stiamo per approfondire.
The Absolute Man è un concept album di rock progressivo sulla vita del “divino” Da Vinci, pubblicato nel luglio 2001 dalla Magna Carta, un’estate luminosa, prima dei fatti luttuosi dell’undici settembre. Il leader dei Magellan all’epoca colse l’occasione per confermare il suo stato di grazia creativo, dopo il primo episodio targato Explorers Club, cosa che non sarebbe stata riconfermata, invece, con il secondo album del supergruppo. Il titolo dopo qualche ripensamento suona appropriato: Leonardo, “forte come un leone”, l’enigma, il divino, l’assoluto, resta una figura unica, il vero Uomo che ha incarnato il senso profondo della libertà. Di qui la seconda parte del titolo, The absolute man, e una mano alata in copertina, l’ingegno non staccato dalla concretezza. Originali anche i ritratti stilizzati dei protagonisti, che conferiscono memorabilità al booklet. Tutto, insomma, è ben confezionato. Nel progetto ritroviamo, altresì, James LaBrie che di lì a qualche anno avrebbe fatto parte del progetto Frameshift e figurato come main character anche in The Human Equation degli Ayreon (a breve uscirà il dvd della rivisitazione teatrale dell’album).
A fronte di tale scelta altisonante, il parterre di ospiti coinvolti è cospicuo: ben 21 artisti (10 al microfono), ma Gardner punta tutto sull’eclettismo di LaBrie per dare riconoscibilità e pathos alla vicenda narrata. La voce dei Dream Theater, all’epoca non proprio al suo apice (si sarebbe ripreso nel tour di Train Of Thought) interpreta al meglio le due anime del genio fiorentino, da un lato istrione, dall’altro anima rock-metal. Da ricordare, quali degni deuteragonisti: il compianto Mike Baker (Shadow Gallery) nei panni di G. F. Melzi (amico fedele di Leonardo); Steve Walsh (Kansas) nelle vesti del pacifico Bartolomeo Calco; un grintoso (ma presente in una sola canzone) Josh Pincus (Ice Age) alias Lorenzo il Magnifico; infine, la brava Michelle Young, madre di Leonardo.
Per noi italiani, il poliedrico umanista è una gloria nazionale insieme a Dante e Leopardi; all’estero, Leonardo continua a intrigare (ricordiamo che il libro di Dan Brown è del 2003) come sommo interprete del pensiero occidentale, sospeso tra ragione e sentimento. Non si poteva scegliere che un simile personaggio per sondare l’animo umano, il mastermind americano sapeva di cogliere nel segno. Il risultato è un album dal sound ricercato, definito dallo stesso Gardner “melodic progressive rock … ma heavy al contempo”. Trent ha svolto anche un lavoro mirabile per quanto riguarda i testi, indagando l’enigma Leonardo (questo uno dei possibili titoli iniziali), la sua difficile integrazione sociale, le sue contraddizioni, il suo sentire enciclopedico. Il difficile è stato decidere cosa tralasciare in modo da non ritrovarsi un album di due ore e testi chilometrici, che sarebbe stato più difficile gestire. La sfida è stata vinta sapientemente, nei sessanta minuti circa dell’album, niente è superfluo, tutto è coeso; esclusi gl’intermezzi, possiamo dire che si tratta di nove canzoni memorabili. La parte strumentale è affidata agli allora emergenti Dali’s Dilemma, basti ricordare il lavoro sopraffino di Jeremy Colson alle pelli, il quale non arriva ai livelli di Terry Bozzio (valore aggiunto di Age of Impact), però rivaleggia con Mike Portnoy, giusto per citare un altro nome importante.
Ma lasciamoci alle spalle riflessioni a mente fredda e immergiamoci nella musica, questo conta. Dopo un’overture cinematica (con tanto di trombe), segue una breve strumentale con un assolo di tastiera memorabile. In pochi minuti capiamo cosa ci attende: un album postmoderno ma non pacchiano, che sa, bensì, ricreare atmosfere rinascimentali, ammantandole di magia e un filo di tristezza del bello che fu. La prima parte è ambientata in Toscana, a Vinci e poi a Firenze. Si affronta il tema della nascita fuori del matrimonio di Leonardo e la sua esclusione dalla classe nobiliare (si dirà omo sanza lettere). Il rapporto con il padre Piero da Vinci è emblematico, già dalla nascita si prospetta un destino fuori dagli schemi per il giovane Leonardo. Emerge, altresì, un ritratto autoritario di Lorenzo de Medici (interpretato, ricordo, da un leonino Josh Pincus) e un affresco semplificatorio del Rinascimento italiano (dove la middle class contava eccome), ma tutto sommato scusabile: era difficile fare meglio in poche strofe.
In “Mona Lisa” s’ipotizza un legame affettivo tra Leonardo e la bella donna misteriosa. Scalda il cuore la voce di Mike Baker nei panni dell’amico Melzi. Dopo due intermezzi, uno heavy e uno rinascimentale di spinetta, “Apprentice” inizia con un coro tipicamente gardneriano, poco incisivo, ma lo stile del mastermind è lo stesso dei Magellan, prendere o lasciare. Si descrivono le varie attitudini del giovane artista, scultore, matematico, anatomista, nonché pittore di immagini sacre che supera il maestro Verrocchio. Non ci si dilunga giustamente sul Leonardo pittore, a ben vedere lo studiamo sui libri di Storia dell’arte, ma il suo contributo alle arti figurative (sue la prospettiva dei perdimenti e l’indagine dei moti dell’anima) non fu rivoluzionario per quanto icastico. Seguono due highlight assoluti del disco, per stessa ammissione di Garnder. “First Commission”, con duetto Walsh-Young e chitarra 12 corde; “This time this way”, gran pezzo da rock opera (con Lisa Bouchelle). Impossibile non emozionarsi, una ballad memorabile seguita da un pezzo dal finale trascinante, con un LaBrie d’applausi, cosa chiedere di più?
Gli ultimi venti minuti del concept non contengono filler. “Inventions” è un brano centrato sulle tecnologie belliche pensate da Leonardo nel contesto delle guerre d’Italia: il sound è heavy e mimetico, anticipa per certi versi quello dei venturi O.S.I. di Kevin Moore. Assistiamo a una discussione a tre, fra niente meno che Ludovico il Moro, Leonardo e il mediatore Bartolomeo Calco (Steve Walsh) che urla l’insensatezza del bellicismo di ogni tempo: «Weapons of war, wasting our time / They make us money, and they kill us fine». Con geniale cambio d’atmosfera la successiva “Shaping the invisible” è un altro cammeo assoluto, una ballad dove spicca forse il miglior LaBrie di sempre, dopo quello del ‘92. Voce, pianoforte e synth nei primi due minuti, poi un’esplosione sonora che ha del commovente. I testi sono i migliori del booklet, Leonardo rivendica l’utilità della sua vita, lo scopo ultimo dell’essere umano: senza rimandi al divino, si respira comunque un’aria trascendentale che commuove.
Un breve intro recitato narra, da ultimo, l’arrivo di Leonardo alla corte di Francesco I: l’effetto postmoderno di tale trovata è azzeccato, nel suo anacronismo, un mirabile esempio di come sfruttare i limiti dell’arte musicale, nonché un classico espediente prog. Dopo l’invasione francese di Milano, nel 1517 (anno delle 95 tesi di Lutero), Leonardo decide, dunque, di stabilirsi alla corte del re di Francia (il futuro rivale di Carlo V, quello sognato da Proust, nonché mecenate di artisti come Rosso Fiorentino, Primaticcio e Cellini). È il canto del cigno, il sommo genio attende di scoprire finalmente il mistero della vita che ha indagato per decenni. La catarsi è totale: «I will soon know / the blue of our heavens, / the origins of the earth»; la componente religiosa prevale (e poco importa se filogicamente attestata):« Dear God, / I repent / I confess / I’m a child unto thee / Through thy grace /bring this son home…» Dopo l’ultimo respiro di Leonardo, seguono due brevi composizioni; la prima, “Sacrament”, è un intermezzo di rullante e tastiera, che prelude a un epilogo rinfrancante, basato su un rebus autografo di Leonardo (conservato nei fogli della Collezione Windsor), il quale fu anche cantore e autore d’improvvisazioni per lira da braccio.
Ripensare alle molte emozioni che questo album riesce ancor a regalare dopo quindici anni fa riflettere sulla qualità delle attuali uscite musicali. Pochi i difetti, sono quelli inclusi nello stile di Gardner, vedi il trattamento dei cori, la ridondanza del nome proprio Leonardo (quadrisillabo onnipresente nei primi brani in scaletta), il maggior peso delle tastiere rispetto al guitarwork, la scelta di alcune voci poco incisive (lo stesso Gardner nei panni del Verrocchio)… In definitiva un album sorprendente, che rende merito a una delle menti più brillanti e complesse della storia occidentale. Certo, resta un filo di malinconia: improbabile, infatti, un altro concept capolavoro dedicato a un grande artista europeo. Guardiamo, tuttavia, al lato positivo: ne guadagna in irrepetibilità il progetto di Trent Gardner, vero hapax in ambito rock/metal (Nostradamus e parenti non fanno testo). Chi non lo conoscesse corri subito ad ascoltarlo!
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)