Recensione: Lepaca Kliffoth
Se facciamo ascoltare prima Ho Drakon Ho Megas del 1993 e poi il più famoso Theli del 1996 a qualcuno che non conosce i Therion non gli passerà mai per la testa che possa trattarsi di due dischi della stessa band: da una parte cupo death metal con pochi spiragli melodici prodotto in relativa economia, dall’altra metal sinfonico di ampio respiro con tanto di orchestra e cori lirici.
Il ponte che collega i due album attenuando una svolta così drastica è questo Lepaca Kliffoth, disco che all’uscita deve aver spiazzato non poco i fan raccolti dai Therion con i tre album del periodo death: per prima cosa i growling sono spariti quasi del tutto, anche se non si può dire che adesso la sgraziata voce di Christofer Johnsson sia esattamente pulita. Dopodichè si sono intromessi un uso più abbondante dei campionamenti di strumenti classici e non da ultima la sospetta abitudine di affidare alcune parti vocali a cori e a cantanti lirici. A questo proposito, col senno di poi, si potrebbe dire che l’interesse per la lirica si era già visto nella Symphony of the Dead contenuta in Beyond Sanctorum del 1991, ma neanche il miglior negromante avrebbe potuto prevedere che da là si sarebbe arrivati a dischi come Vovin o Deggial.
Meno eclatante ma altrettanto fondamentale è l’alleggerimento del suono delle chitarre (già cominciato in realtà in Ho Drakon Ho Megas), che si lasciano più frequentemente andare ad assoli ariosi e veloci o a riff “ispirati” da blasonate band dell’heavy metal classico, in primis Iron Maiden e Judas Priest.
Venendo alle singole canzoni, dopo i primi due brani che, pur mancando il growling, sono ancora legati alle sonorità dei dischi precedenti, abbiamo la strumentale e classicheggiante Arrival of the Darkest Queen, che potrebbe sembrare un semplice intermezzo prima di riscatenare la violenza se non fosse seguita da The Beauty in Black, altro brano che porta in primo piano la melodia e che è la vera premessa a quello che si sentirà in Theli, anche perchè per la prima volta nella storia della band il cantato è affidato quasi completamente a un coro barocco.
Il solco è tracciato, e anche se nell’album tornano spesso segni dello stile del passato (in Black anche qualche growl, ma alternato ad acuti di soprano) è chiaro che i Therion sono alla ricerca di nuovi percorsi musicali. Piuttosto emblematiche in proposito la presenza di una cover di Sorrows of the Moon dei Celtic Frost (contenuta in Into the Pandemonium, disco considerato da molti il capostipite delle contaminazioni tra metal estremo e altri generi musicali) e, a partire dal titolo, la nona traccia, Let the new day begin, in cui verso la fine un accenno di growling viene ridimensionato (quasi ridicolizzato) da una serie di curiosi effetti di riverbero che portano alla melodica parte conclusiva del brano.
Non si può dire che la band abbia ancora le idee chiare sulla direzione da prendere, cosa che, assieme a una produzione non ancora all’altezza delle loro ambizioni, limita un poco questo lavoro impedendogli di essere annoverato tra i titoli importanti del metal sinfonico. Ciò non toglie però che si tratti di un tassello determinante nell’evoluzione di questa band.
E’ da segnalare infine l’efficace idra in copertina, perchè è l’ultima illustrazione decente e significativa su un loro album almeno fino a Secret of the Runes del 2001.
Tracklist:
1. The wings of the Hydra
2. Melez
3. Arrival of the darkest queen
4. The beauty in black
5. Riders of Theli
6. Black
7. Darkness eve
8. Sorrows of the moon
9. Let the new day begin
10. Lepaca kliffoth
11. Evocation of Vovin
12. Enter the voids
13. The veil of golden spheres