Recensione: Leper Colony
Altro giro, altra nuova band di Rogga Johansson!
Chiamata Leper Colony, essa si compone di ulteriori due elementi di sicura esperienza: Marc Grewe alla voce e Jon Skäre alla batteria.
Davvero resta un mistero di come il buon Rogga riesca a gestire gli innumerevoli progetti di cui fa parte. Evidentemente in lui la vena compositiva pompa musica come pochi altro al Mondo, anche se c’è da osservare che non tutte le ciambelle sono uscite col buco. In mezzo a tanta grazia di Dio, difatti, alcune cose sono qualitativamente scarse mentre altre, in effetti, hanno qualcosa da raccontare. Come i Paganizer, per esempio.
E i Leper Colony? Sempre di death si tratta, chiaramente. Però, stavolta, è assai robusta la componente thrash. Tale da allontanare l’act internazionale dall’old school death metal, terra di conquista abituale dei parti iper-gemellari del Nostro. Una componente che, addirittura, prende il sopravvento in alcuni episodi come ‘Tar and Feathers’, il cui tiro è semplicemente irresistibile, da headbanging vecchi tempi. Benché, a onor del vero, si stagli un po’ troppo, almeno a parere di chi scrive, l’ombra degli Slayer.
Tuttavia, procedendo con gli ascolti, più che le assonanze con campioni vari del thrash emergono i segni caratteristici del terzetto. Vero, perfetto esempio di death metal a cui il thrash si è avvinghiato in maniera pressoché perfetta. Ma, in fondo, perché death? La risposta non è facile poiché pretende, come requisito di partenza, un orecchio allenato da anni e anni di residenza nei territori del metal estremo. Operazione che consente di percepire con decisione il mood del platter. L’umore, l’odore, il sapore. Che rimandano continuamente, come un boomerang, al death invece che al thrash. C’è poi il groove. La serie ritmica che, grazie al lavoro certosino di Skäre rimanda, anch’esso, al death iterando quello di band leggendarie come Death, Massacre, Morgoth e altri ancora (‘A Flow So Greatly Macabre’).
La stessa title-track, nella quale Grewe dà finalmente sfogo a un roco, rabbioso growling, rende merito alla natura del metallo della morte. Atmosfere arcane, tetre, quasi horror, salano la pietanza di putrefazione, resa più dolce da passaggi chitarristici assai melodici. E, a proposito di chitarra, per tornare all’inizio del discorso, lo stesso Johansson modifica leggermente il suo stile personale per dar vita a un riffing thrashy, appunto, evitando di cadere nel trito e ritrito cliché del suono zanzaroso che si accomuna molti interpreti del death metal.
“Leper Colony”, il debut-album, insomma, vive accoccolato su una sorta di equilibrio instabile. Un accordo in più, uno in meno, ed ecco che avviene il passaggio fra uno e l’altro dei generi più volte menzionati. Seppure l’abnorme retroterra culturale di Johansson, nonché il suo talento a tutto tondo, gli consentano di riuscire, sempre e comunque, a disegnare un marchio di fabbrica, un logo per ciascuno dei suoi pargoli, l’LP appare leggermente altalenante. Indeciso, insomma, su quale direzione intraprendere. Il che non si può affermare sia un difetto, data la natura intrinsecamente e indubbiamente thrash / death dell’LP medesimo.
Se non un difetto, però, un neo appena accennato che macchia leggermente un’opera che, comunque, presenta una decisa volontà di spaccare tutto e tutti. Rammentando, nel contempo, che nel lontano passato qualcuno ha posto le basi per giungere, lustri dopo, a un lavoro che fosse capace di permettersi di divagare attorno a tematiche ambivalenti. Rese bene nelle varie canzoni grazie, anche, a un’abilità esecutiva di tutto il rispetto e, ultima ma non ultima, di una passione sicuramente infinita.
Difficile giudicare “Leper Colony”, poiché l’origine di tale operazione dipende in primis dai gusti musicali. C’è tutto quel che deve esserci in un disco di… thrash / death, difatti, per cui a ciascuno il suo parere!
Daniele “dani66” D’Adamo