Recensione: Leprosy
Un anno dopo la pubblicazione di Scream Bloody Gore, esce Leprosy, con una line up totalmente rinnovata rispetto a quella del disco di debutto, ma che comunque aveva avuto modo di solidificarsi bene; infatti al tour di supporto di Scream Bloody Gore i Death si presentarono con la line up che poi avrebbe inciso Leprosy.
Quindi entrano alla seconda chitarra Rick Rozz, Bill Andrews dietro le pelli e Terry Butler al basso.
Rispetto al devastante assalto sonoro di Scream Bloddy Gore, grezzo e minimale, con Leprosy i Death iniziano a delinearsi nella loro forma più sofisticata. Va detto che benchè ci siano stati notevoli progressi, l’album suona ancora molto grezzo, anche se non quanto il suo predecessore. Innanzitutto la produzione è meno caotica, il sound ed i tempi si fanno più monilitici e lenti, si fa un più largo uso della melodia, che ancora non ha però il ruolo principale che gli verrà attribuito con gli album seguenti.
Da molti viene considerato altrettanto fondamentale per la scena Death quanto il suo predecessore, secondo me forse anche di più per il semplice fatto che Leprosy al contrario di Scream Bloody Gore è fottuto Death Metal al 100%, lasciandosi tutte le influenze thrash dietro. I tempi della batteria di Andrews iniziano a prendere una forma ben più complessa, riuscendo ad alternare accelerazioni, ad un buono uso della doppia cassa e ad alcuni tratti caratterizzati da stacchi sincopati e in controtempo. Peccato solo che i suoni della bateria risultino piuttosto ovattati oggigiorno.
Come già detto i solo di Chuck sono ben altra cosa rispetto a quelli di Scream Bloody Gore, e stesso discorso può essere fatto per il riffing. Iniziano a comparire a sprazzi anche le famose scale su cui Chuck in futuro avrebbe costruito melodie immortali.
La opening track di Leprosy, la title-track, è anche la più lunga e riesce egregiamente a coniugare momenti tipici del futuro Death sound con alcuni più cechi e violenti. Grandiosa anche per il fatto di essere sicuramnete quella con più sfaccettature di tutto l’album, ricca di cambi di tempo e dotata di un mood assasino. La seconda track è Born Dead, che insieme a Zombie Ritual di Scream Bloody Gore e a qualche altra canzone di questo Leprosy, resterà tra gli autentici inni della band statunitense, che continuerà a suonarla per molto tempo ancora in sede live. Born Dead al contrario dell’opener è una scheggia oscura e tirata che ti si conficca sotto la pelle già dai primi ascolti, una canzone a dir poco grandiosa ed eccezionalmente immediata. I due seguenti capitoli musicali “Forgotten Past” e “Left to Die”, riescono a mantenere alto il trend qualitativo pur non apportando sostanziali innovazioni, si rivelano comunque altamente trascinanti e completi, la volata ideale per lanciare la vera perla di quest’album: “Pull the Plug”. Tra le canzoni preferite di sempre da Chuck, è stata usata anche come track di chiusura sul formidabile “Live in L.A.”. Un riffing semplice ma talmente magnetico, che è in grado di darmi un qualcosa di indescrivibile ogni volta che l’ ascolto, densa di potenza e carica di significato. “Open Casket” e “Primitive Ways” altre due grandiosi canzoni, sono fra quelle con l’attitudine più in your face dell’album, e rappresentano in qualche modo la grande eredità di Scream Bloody Gore. Non mancano comunque parti più ragionate e meno tirate come ad esempio poco prima della parte centrale in “Primitive Ways”. Canzone di chiusura è “Chock on It” decisamente, l’altro classico insieme a “Born Dead” e “Pull the Plug”, che fa uso dei tipici riff rallentati che conferiscono alla produzione targata Death quell’alone un pò mistico.
L’album che segna di più il distacco dal precedente in tutta la discografia dei Death. Leprosy è un album che va decisamente considerato al pari di “Scream Bloody Gore” per valore storico, se non anche al di sopra per la qualità effettiva della musica, che inizia ad avviarsi verso forme più complesse e tecniche, che raggiungeranno via via il culmine sino ad arrivare alla fine della storia…
Francesco “madcap” Vitale