Recensione: Les Chants de l’Aurore
Un’attesa leggermente superiore al solito ha decretato per quest’anno l’uscita del nuovo lavoro degli Alcest, duo francese che col qui presente “Les Chants de l’Aurore” si è impossessato del mio uggioso inizio d’estate. La ricetta dei nostri è sempre la stessa, quel blackgaze che Neige e Winterhalter hanno contribuito in maniera determinante a creare e di cui sono ancora i massimi esponenti, e potrebbe essere sbrigativamente descritta come una commistione morbida e sfaccettata di black atmosferico e una serie imprecisata di generi più accessibili. La musica degli Alcest vive di atmosfere, insomma, e dopo averne esplorato gli aspetti più oscuri col precedente “Spiritual Instinct”, a questo giro si colora di emozioni agrodolci, veicolando un messaggio positivo e solare fatto di melodie ariose, delicate, per cullare l’ascoltatore in un abbraccio dal tepore fiabesco e nostalgico che profuma di rinascita, sia essa emotiva o spirituale. Il duo pennella scenari variopinti, onirici e tranquillizzanti, ricordandosi di quando in quando della componente black per movimentarli con improvvise raffiche più turbolente e mescolando, così, gradienti emotivi diversi nello spazio di ogni singola canzone. Gli sporadici indurimenti presenti in “Les Chants de l’Aurore” durano giusto il tempo di un acquazzone estivo, fungendo da contrappunto a tessiture languide e meditative mentre note più inquiete si fanno largo, di tanto in tanto, per instillare nelle composizioni una tensione transitoria.
Sebbene l’umore generale di “Les Chants de l’Aurore” sia piuttosto omogeneo, ogni traccia presenta profumi caratteristici e narra così un racconto diverso, rapportandosi in modo quasi simbiotico al resto dell’album e alla sua atmosfera complessiva, ed è proprio grazie a questo continuo gioco di rimandi tematici ed emozionali che “Les Chants de l’Aurore” colpisce il centro del bersaglio. Dalla carica propositiva e terapeutica della lussureggiante e gioiosa “Komorebi” – uno degli apici del disco – alle note languide della crepuscolare “L’Adieu”, infatti, tutto l’album irradia uno spettro di sensazioni sfumate ed accoglienti che mettono in mostra un’indiscussa padronanza del mezzo espressivo e la capacità di rimanere concentrati sull’obiettivo finale, pur donando luci e colori diversi ad ogni episodio. Ecco quindi che, mentre nella breve “Réminiscence” la componente più irruenta viene accantonata per far spazio a una melodia di piano mesta e nostalgica, in altri casi è affiancata ad elementi più distanti che accentuano il contrasto cromatico. Si vedano, ad esempio, gli sviluppi di “L’Envol” e di “Améthyste” e il loro continuo gioco ad incastro tra fraseggi tesi, arpeggi acustici dal tono rilassato e melodie maestose, estatiche, o del fare estivo di “Flamme Jumelle” col suo susseguirsi di placide atmosfere ed improvvisi slanci sognanti, o ancora la carica propulsiva della splendida “L’Enfant de la Lune” ed il perfetto bilanciamento tra furia, accessibilità e languido abbandono.
Sette tracce per tre quarti d’ora di musica intensa ed emozionale e poi tutti a casa: “Les Chants de l’Aurore” arriva all’obiettivo senza girarci troppo intorno ma anche senza fretta, prendendosi i tempi giusti ed esibendo una pienezza sonora molto ben dosata e, soprattutto, funzionale allo scopo. Il duo francese realizza un lavoro che, sebbene possa innescare un certo sentore di deja vù in alcuni passaggi, si dimostra ricco, luminoso e organico, e rifugge svolazzi ed infiorettature fini a se stesse per concentrarsi su un messaggio accessibile ma al tempo stesso intimo e catartico. Il caleidoscopio creato dagli Alcest evidenzia ancora una volta le capacità di manipolazione emotiva dei francesi, che nonostante si muovano spesso in una gamma molto precisa e codificata di soluzioni dimostrano di saper donare nuova linfa a una ricetta ben nota anche solo assemblandone gli elementi costitutivi in modo diverso.
Bentornati.