Recensione: Let’s Get Serious
Fa sempre piuttosto piacere l’ascoltare un nuovo album degli Outloud, band greco-americana che con il primo cd del 2009 aveva realmente messo a segno un colpo ad effetto, ben giocato sulla nostalgia per gli anni ottanta potenziata con suoni moderni e parecchie vitamine.
Dopo un passaggio “carino” ma meno convincente nel 2011 (“Love Catastrophe”) ed un EP che, in tutta onestà, ci era apparso del tutto inutile ed interlocutorio (“More Catastrophe” del 2012), l’arrivo del nuovo “Let’s Get Serious” non poteva che lasciare spazio a due differenti ed antitetiche possibilità. Un progressivo decadimento, con un ribasso costante nel valore delle composizioni ed un inabissamento nel novero delle tantissime band di mediocre caratura presenti in giro per il globo.
Oppure, un ritorno alle scintille dell’esordio, quelle in cui l’approccio “eighties” era un semplice passepartout utile nel modellare dei brani che “scalpellassero” la memoria con ritornelli a tutto fuoco (chi ricorda “We Run” e “Tonite”?), senza però apparire per forza un impersonale rifacimento di cose altrui.
Magari non utili a creare un “vero” capolavoro (quanti pochi se ne incontrano, ormai), ma comunque un disco pronto a vincere la prova della scorrevolezza, offrendosi all’ascolto piacevole e prolungato in virtù di soluzioni accattivanti, qualche bel coro ed un po’ di ritornelli da memorizzare.
A giudicare dall’artwork di copertina, gl’indizi potevano, ad ogni buon conto, dirsi confortanti sin dal primo sguardo.
La volontà di scherzare con alcuni stereotipi classici dell’hard rock di trent’anni fa è più che manifesto: i grattacieli “losangelini” quale sfondo ed una notevole figura femminile in primo piano, non sono altro che una “reprise” di quel classico modo di intendere la musica rock tipico del sogno americano che è divenuto ormai una sorta di sotto-cultura legata ad un periodo storico ben preciso.
Ed è proprio così, sin dalle apparenze immediate, che “Let’s Get Serious” si rivela essere un disco realizzato con tutti i caratteri e le peculiarità necessarie nel risultare un buon acquisto ed un valido compagno d’ascolti proprio per quella fascia di appassionati che ha negli anni ottanta una sorta di stella polare cui aggrapparsi in ogni frangente.
Qualche minima modifica rispetto al passato è tuttavia facile da cogliere: l’esuberanza degli inizi è più smorzata, mentre il tenore complessivo dei brani tradisce un che di leggermente meno “ingenuo” rispetto alla scattante giovialità che era stata del capitolo targato 2009.
Qualcuno la chiamerebbe evoluzione: noi preferiamo definirla semplicemente consapevolezza dei propri mezzi. L’impressione è ora quella di un gruppo “reale” e non finalizzato al semplice divertissement, che sa e riesce a mettere sul pentagramma buone canzoni, in discreto equilibrio tra orecchiabilità e pura irruenza metal. Con, in più, un’importante cura per i particolari.
Messe da parte, infatti, alcune minime forzature (gli urlacci senza senso piazzati qua e la da Mogler nell’iniziale “Death Rock” ad esempio), è proprio il comparto melodico quello che – allo stato attuale – più convince.
Emergono in tal modo brani d’impatto come “I Was So Blind”, “Bury The Knife”, “Like A Dream”, “All in Vain” e “A While To Go”, dotati di un’armonia che riesce a colpire nell’immediato senza però apparire frutto di semplice “istinto”, quanto piuttosto, di un sapiente lavoro di miscelazione degli ingredienti tali da rendere attuale un suono dall’evidente radice antica.
Un modo di rinnovarsi che abbiamo già avuto modo di apprezzare anche altrove in tempi recenti: ci verrebbe spontaneo, chissà perché, tracciare una sorta di parallelo con quanto proposto dagli Shy nell’ultimo – eccellente e nostalgico – cd omonimo.
Evidente l’abilità di Katsionis nel modellare le fattezze del songwriting (così come con chitarra e tastiere) quanto degna di nota la voce “caratterizzante” di Mogler, come detto, talvolta un po’ “urlatore” eppure inevitabilmente perfetto per il sound degli Outloud.
Da segnalare, per ovvio “dover di cronaca”, la presenza in line up di George Kollias alla batteria (il potente batterista dei Nile, per chi si ponesse la domanda) e della cover del tormentone ottantiano “Enola Gay”, un pezzo che i non più giovanissimi come il sottoscritto, ricorderanno tra le hit più suonate dalle radio commerciali nei gloriosi eighties, resa in una versione effettivamente molto godibile.
Molta melodia, un pizzico di ferocia heavy (“Toy Soldiers”, episodio in cui godere dell’ospitata di Mike Orlando degli Adrenaline Mob, è quasi thrash) ed alcune buone idee, vanno insomma a comporre quello che qualitativamente può essere considerato come il vero erede dell’album uscito nel 2009.
Posto che, l’elaborare soluzioni originali in un genere come il melodic metal – o hard rock che dir si voglia – è questione pressoché impossibile da parecchio, l’ibrido tra heavy old style e melodic rock robustamente orecchiabile proposto sin dal debutto da Katsionis e Mogler, questa volta, esce vincitore senza troppe riserve.
E chi ha apprezzato agli esordi, non potrà che gradire parecchio.
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