Recensione: Level Eleven
Gruppi che definivamo anni fa nuove promesse dell’AOR, vantano oggigiorno una folta discografia e quel recente passato sembra ormai lontano, smarrito nel tempo. Così, i Last Autumn’s Dream, contano all’attivo ben undici dischi, un curriculum rispettabile, comprensivo di album ispirati e di spessore, dove convivono ritornelli appaganti e soluzioni ben disegnate, in cui affluisce la grande tradizione della melodia svedese (Europe, Treat, Talisman). Ma qualcosa è cambiato: il chitarrista e compositore Andy Malecek (ex-Fair Warning) ha lasciato l’ovile e i Nostri hanno dovuto accusare il colpo, rimpiazzandolo con Peter Söderström. L’uscita di Andy e la corposa discografia della band, dunque, potranno incidere sulla qualità dell’undicesimo lavoro degli svedesi, intitolato volutamente “Level Eleven”?
Per rispondere a questa domanda è necessario lasciar “parlare” l’album, la cui delicata eloquenza appare chiara quando l’opener si intitola “Kiss Me”. Il gioco ritmico di “Kiss Me” prevede pause e climax per accentuare il movimento, dove l’apice risiede nel veloce refrain, baciato dalle giuste intenzioni di proporre un loop melodico veloce e insinuante.
Come da copione, la successiva “Follow Your Heart” ha un intro famigliare mentre il ritornello zampilla note effervescenti. Pezzo piacevole e convincente, vezzeggiato da esuberanti backing vocals.
In “Fight The World” aleggia un’atmosfera incerta e soffusa, grazie ad accorgimenti sinfonici ruffiani e synts coreografici. Ennesimo pezzo, dunque, che sacrifica la potenza dell’hard’n’roll per un approccio più sognante, tutto sommato riuscito, complice il ritornello venato da una malinconia “autunnale” e da quel pizzico di speranza che porta la stagione primaverile. Zuccheroso e radioso, “Fight The World” è il tipico pezzo da sconsigliare agli amanti del metallo più duro ed epico, che preferiscono l’austerità della guerra nordica ad un placido sonno (o risveglio) mentre il sole lambisce la pelle.
Nel sound di “Level Eleven” c’è sempre posto per soavi melodie e i velati vocalizzi di “I’ll B there 4 U” affondano le proprie radici nel blues e soul. Fiducia e “toni affettuosi” balenano nelle carezzevoli armonie dei cori ma il morbido abbraccio di Mikael e soci incomincia ad essere troppo soft e appiccicoso, subentrando il bisogno di qualcosa di più ruvidamente energetico.
Alla richiesta, la chitarra si riprende dal torpore, dando un po’ di nerbo a “Losing You”. Nerbo che dura poche battute e frutta un buon bridge mentre tutto il resto è affidato al sodalizio tra i tasti e il main vox, che vortica attorno all’ascoltatore conferendo un look da boogie woogie in chiave AOR.
I Nostri non si sbilanciano in quanto a carica e tiro, riuscendo comunque con “Go Go Go – Get Ready For The Show” a fornire sufficiente energia, imbrigliata con i consueti accorgimenti melodici e qualche assolo teatrale, che mitigano l’anima rockeggiante della song.
“Delirious” si concede maggior trasporto senza spingere troppo sull’acceleratore, mantenendo una certa grazia di fondo. Fraseggi neoclassici a profusione si sprecano in una guitar session più lunga del solito, gradevole seppur dispersiva.
“Made Of Stone” ripropone il lento d’autore, addolcito dall’immancabile pianoforte. Al di là dei cliché, se avrete pazienza, scoprirete nel ritornello una parte corale veramente appagante.
Lo schema “voci soavi, partenza lenta e coro veloce e gioioso” ritorna puntualmente in “Stick Around”. Le chitarre, infatti, si muovono prudenti, sospinte dagli immancabili vocals radiosi, per poi spiccare un salto nel coro, non spiacevole ma che ormai sa di mestiere.
Partenza sicura per “Star”, che ha nel ritornello la tipica esuberanza dei Bon Jovi, grazie anche alla voce calda di Erlandsson. Latita ancora il salto di qualità nella guisa di un assolo che possa distinguere questo ennesimo sforzo radiofonico dal resto del lotto.
“PLZ” non aiuta a diversificare la proposta, senza discostarsi dalla classica canzone d’amore posta come epilogo dell’album, con tutte le varianti del caso (pianoforte, chitarre sedate e linee vocali a tratti di derivazione beatlesiana).
In definitiva, “Level Eleven” non aggiunge nulla di memorabile alla già fornita proposta dei Last Autumn’s Dream, offrendo un platter con buoni spunti e qualche tocco raffinato. Forse è prematuro dirlo, ma sembra che la nuova chitarra solista non abbia contribuito a nuove idee. Gli assoli, infatti, anche quando si protraggono, mancano l’obiettivo di completare ed esaltare la canzone, quasi fossero nulla più che un esercizio di stile. Detto questo, il lavoro si fregia pure di ottime armonie, che convinceranno il pubblico melodico ma dobbiamo rimproverare alla produzione la mancanza di energia e di un suono più incisivo. Solo il tempo potrà dirci se Söderström maturerà l’ispirazione del suo predecessore e se i Nostri eroi ci faranno di nuovo sognare.
Eric Nicodemo