Recensione: Liberation

Di Roberto Gelmi - 28 Dicembre 2015 - 10:00
Liberation
Band: Ice Age
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2001
Nazione:
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85

A.D. 2001, nuovo millennio, nuovo secolo. Le Twin Towers solcano ancora lo skyline newyorkese e all’inizio di marzo esce il secondo e ultimo full-length degli Ice Age, che figurano seriosi nel booklet proprio con le Torri Gemelle sullo sfondo. Dopo aver stupito un paio d’anni prima (ma chi se ne era davvero accorto?) con l’ottimo The Great Divide, che deve molto ai conterranei Dream Theater e ha saputo interpretare l’essenza del progressive metal anni ’90, il combo americano conferma uno stato di forma e ispirazione invidiabili, proponendo un platter dal minutaggio meno impegnativo rispetto al precedente.
L’album inizia con alcune note di tastiera al ritmo di uno hi-hat scatenato, segue una rullata e la comparsa della 6-corde di Pappas. Potrebbe parere un avvio al rallentatore e invece il pezzo continua gradatamente in un crescendo mirabile, per sfociare in un ritornello liberatorio che recita «Flowers on the Lhasa Road / Flowers on the Lhasa Road», ficcante per via di un drumwork incisivo e un palm mute groovy. Un opener invidiabile, diretto e variegato con un refrain catchy e trovate chitarristiche a iosa (basti l’assolo in sweep picking sul finire del settimo minuto), difficile restarne indifferenti.
Dopo l’intro soffuso e marziale (solo tastiera e rullante) intitolato “March of the Red Dragon”, “The Blood of Ages” attacca dimessa e sorniona, subentra una chitarra semiacustica, poi il basso e la chitarra elettrica. Il pezzo continua desultorio, con ottimi cambi di atmosfera e dinamiche; nei minuti centrali colpisce la voce di Pincus che scandisce una marcia militare “Left/Right, Left/Right” (con rispettivo sdoppiamento in cuffia). Aponte infila finezze su finezze, da vero epigono di Portnoy; Pappas a sua volta rivaleggia con il miglior Petrucci, due giganti.
A Thousand Years” continua il discorso del primo quarto d’ora del disco, i virtuosismi non mancano, si respira l’aria malinconica di cui è intessuta l’identità degli Ice Age (se aprite il cd originale e sollevate il disco, troverete la vista di una città arcana davanti alle montagne innevate presenti nella copertina di The Great Divide e, in basso a sinistra, lo stesso anziano figuro che ricorda Il monaco in riva al mare di Friedrich). “When You’re Ready” è una pseudo-ballad che inizia placida e rinfrancante (ricorda “Join”, brano el 1999), e poi regola un finale pirotecnico, epitome del miglior prog. metal anni Novanta.
In Liberation non trova spazio una strumentale barocca come “Spare Chicken Parts“, dobbiamo accontentarci, si fa per dire, della comunque gustosa “Musical Cages”. I debiti ai Dream Theater sono palesi, ma gli Ice Age riescono a proporre un sound originalissimo, sorretto dai duelli tra Pappas e Pincus, bravo al microfono ma anche ai tasti d’avorio.
Altro breve intro semiacustico, novità rispetto al debut album, ed entriamo nell’ultima parte del disco, con la possente “The Guardian of Forever”, pezzo dal tiro melodico indiscusso e un attacco sincopato che in pochi secondi si fa granitico. L’affiatamento tra i componenti del gruppo è totale, difficile non provare un brivido di gioia sentendo delle ritmiche così supponenti. Di Cesare arricchisce la proposta musicale dei newyorchesi, il suo basso pulsante rimpolpa e smussa un sound che a tratti si fa thrash.
Dopo l’ennesimo intro, questa volta pleonastico, “The Wolf” ha un buon avvio, poi si rivela un brano un po’ ripetitivo e Pincus esagerare nel recitare la parte del cattivo protagonista di turno.
Ultimo sussulto dell’album, “To Say Goodbye Part III: Still Here” è il commiato dagli Ice ai propri fan, che vedono completarsi la trilogia iniziata con The Great Divide, dove si compaiono le prime due parti della suite. Si respira di nuovo tanta nostalgia (e il brano non a caso è in ricordo di una mico perduto), Pincus tiene note lunghe, con vibrati e glissati che non sono il suo forte, ma poco importa. Viene spontaneo paragonare questo pezzo all‘altrettanto malinconico “Losing Time/Grand Finale” dei Dream Theater di Six Degrees Of Inner Turbulence.
Come coda “mistica” e sorta di easter egg, “Tong-Len” (nome di una pratica meditativa del buddismo tibetano) è un assolo di Pincus alla tastiera che si ricollega al bell’artwork, con una scimmia in gabbia nel front e un monaco tibetano, vestito degli stessi colori caldi, nel retro.

Liberation è un album con diversi highlight (“The Lhasa Road”, “The Blood of Ages”, “The Guardian of Forever”) e alcuni difetti (alcuni intro superflui, la produzione non ideale della batteria, i soliti limiti di Pincus al microfono), tuttavia è un disco notevole, ormai un classico per i progster della prima ora.
Ringraziamo di cuore gli Ice Age, nella loro breve carriera hanno regalato due ore di musica arricchente, senza vedersi tributata alcuna fama internazionale. Chi li conosce li ricorda con un sorriso e un filo di magone, chi non li conosce si affretti a procurarsi i due album, la Magna Carta ha rilasciato da alcuni mesi una doppia ristampa dei platter.

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

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