Recensione: Liberty or Death
Il 2007 è appena giunto ed eccoci già di fronte a una delle uscite maggiori di questa annata per quanto riguarda il metal classico: il dodicesimo disco da studio dei Grave Digger. Il nuovo lavoro dell’amato Scavatore si chiama Liberty or Death, giunge dopo il deludente ‘The Last Supper’ e si preannuncia un punto focale nella carriera di una band che, stando a quanto si è sentito sull’ultima mediocre uscita, sta lottando per la vita.
Mi duole annunciare che il monicker Grave Digger è di nuovo lontano di fasti dei dischi che lo hanno reso quel che è, ed è lontano anche dagli episodi migliori partoriti con l’ascia di Manni Schmidt in formazione. Francamente non era lecito aspettarsi un nuovo ‘The Reaper’ o un nuovo ‘Tunes of War’, ma quantomeno un disco sugli ottimi livelli di ‘Rheingold’ e ‘Excalibur’, o anche soltanto sulla buona costanza di ‘Grave Digger’, questo sì. Invece è con grande tristezza e rammarico che ci tocca prendere atto di una band che sembra sempre più essere in procinto di finire le riserve di proiettili vincenti e che qui si dedica a una vera e propria fiera del riciclaggio. Qualche ottimo brano nella prima parte dell’album basta a malapena a mantenere su livelli poco più che sufficienti un disco che, più gira nel lettore, più ci presenta senza troppi giri di parole tutte le enormi difficoltà a cui l’ispirazione della band va oggi incontro. Tanti mid-tempo costruiti quasi con lo stampino, un palm muting ossessivo che mette in mostra la mancanza di idee vincenti per il riffing, i ritornelli che non conquistano come ai tempi che furono. In vecchi punti di forza diventano i difetti principali: sono queste debolezze che emergono laddove una volta si attecchiva la forza di questa band a spaventare e lasciare l’amaro in bocca.
Il quadro, piuttosto grigio e abbastanza deludente – almeno per un fan di vecchia data come il sottoscritto – viene ravvivato da alcuni episodi vitali ed efficaci che brillano come lucciole al buio in mezzo alla fiacchezza collettiva: quei pezzi che erano quasi completamente mancati in ‘The Last Supper’ e che invece pullulavano nei dischi degli anni ’90. Si tratta di Ocean of Blood, tipica sferragliata alla Grave Digger, brano veloce e potente sempre a cavallo tra due album come ‘The Reaper’ e ‘Knights of the Cross’. Energia allo stato puro, con Manni Schmidt a macinare riffing e l’inconfondibile ruvida voce di Boltendahl a scorazzare qua e là per i versi. Oppure è il caso della successiva Highland Tears, frammento che potrebbe tranquillamente passare per un b-side o un inedito del periodo ‘Tunes of War’; il che, al livello odierno, significa una delle cose in assoluto più riuscite dell’intero lavoro. Anche l’opener e title-track Liberty or Death ha un suo perchè, The Terribile One si salva nonostante un assolo piuttosto insapore, ma per il resto dei Grave Digger dei giorni d’oro non si intravede nemmeno l’ombra. La band ha spinto moltissimo sull’attitudine ottantiana, staccandosi da quel marchio di fabbrica che si era costruita con sudore e fatica per ricadere nel pericoloso vortice degli stereotipi. L’unica vera novità (in campo Scavatore, ovviamente) risulta essere Silent Revolution, canonicissimo brano della tradizione hard rock degli anni ’70, mentre alla fine dei conti una delle cose migliori del disco è proprio la bonus track, disponibile soltanto nella versione in digipack.
Insomma il ritorno a sentieri già battuti e l’ostinata voglia di puntare tutto sulla canonicità senza compromessi ha migliorato le cose rispetto a ‘The Last Supper’, ma non ha risolto tutti i problemi sorti con l’ultimo episodio da studio. Anzi ha risollevato la questione dell’eccessiva ridondanza della proposta dei Grave Digger, proprio quando con l’episodio dedicato a Edgar Alla Poe e ‘Rheingold’ – che continuo a ritenere un ottimo disco e il miglior momento del dopo-trilogia – il parziale rinnovamento sembrava aver dato i frutti sperati.
Chris Boltendahl e soci sono un patrimonio per la scena metal: sempre semplici e genuini, sempre discreti e lontano dalle polemiche… ma non si può essere sordi davanti a questo nuovo disco che, se da una parte propone brani di grande potenza e carattere, come è logico aspettarsi da nomi di questo livello, dall’altra mette in luce i limiti odierni della band, attraverso veri e propri riempitivi sempre in bilico sulla sottile linea della mera sufficienza, brani che non avevano nulla da dire dieci anni fa e che oggi, purtroppo, non possono che risultare opachi e già sentiti.
Giunti a questo punto ci sono due strade che si possono decidere di percorrere davanti a un disco del genere: accontentarsi di quella manciata di buoni brani e ritenersi soddisfatti, oppure valutare il disco nel suo complesso, mentre nelle orecchie risuonano gli echi dei grandi dischi che i Grave Digger hanno sfornato in passato. Ho cercato di restare in una posizione più neutra possibile e per questo il voto (e il giudizio complessivo) sembreranno di manica larga a chi vede ‘Liberty of Death’ come un disco inconcludente e mediocre, mentre agli occhi degli altri si tratterà di un’ingiustizia verso un disco quadrato e conservatore, che fa degli stereotipi il proprio punto di forza.
La verità sta davvero nel mezzo? Probabilmente sì: Liberty or Death risulta un disco nel complesso ascoltabile, ma un lavoro poco brillante da cui presto ci ritroveremo a estrarre soltanto i soliti tre/quattro episodi, dimenticando gli altri stancanti frammenti davvero poco ispirati. C’è infine da dare atto alla band che nonostante un songwriting non certo eccezionale, l’esecuzione e la grinta siano effettivamente migliorate rispetto a ‘The Last Supper’. Speriamo sia il primo passo di una risalita che possa portare il becchino di nuovo ai livelli che gli competono. Speriamo, ma sarà dura, molto dura.
Tracklist:
01. Liberty or Death
02. Ocean of Blood
03. Highland Tears
04. The Terribile One
05. Until the Last King Died
06. March of the Innocent
07. Silent Revolution
08. Shadowland
09. Forecourt to Hell
10. Massada
Alessandro ‘Zac’ Zaccarini