Recensione: Life
Chi ha presenziato al Wacken 2005 ricorderà forse, tra tanti nomi illustri, il nome un po’ meno illustre di una giovane cantante giapponese, presentata con tutti i crismi dalle agenzie di promozione locali. La ragazza in questione è Saeko Kitamae, giunta un anno addietro al debutto con Above Heaven – Below Heaven, un album non proprio esaltante, ciò nondimeno capace di riscuotere discreti consensi entro i confini germanici. Tanto che a due anni di distanza giunge alle stampe il suo seguito, il qui presente Life. Ma andiamo con ordine. Innanzitutto, da dove spunta questa Saeko?
Ciò che tutti sanno è che è una cantante, e che viene dal Giappone. Ciò che non tutti conoscono è la sua storia. Nel 2002, in seguito a una serie di non meglio precisati problemi di salute, Saeko Kitamae decide di abbandonare gruppo, famiglia e patria per imbarcarsi alla volta del Vecchio Continente. Valigia alla mano, senza alcun contatto e senza neppure conoscere la lingua, atterra in Germania: come si può immaginare, il primo impatto non è dei più facili. Dopo qualche tempo la spaesata Saeko si imbatte in Lars Retz, bassista dei Metalium. Questi ascolta la sua storia e, convinto dalla grande determinazione della giovane, decide di concederle una possibilità: la aiuta a mettere insieme una band e con la collaborazione del compagno di squadra Michael Ehre produce il debutto Above Heaven – Below Heaven. A livello di promozione l’impegno è massimale, a testimonianza della grande fiducia riposta nelle potenzialità della giovane vocalist. Il responso della stampa locale pare nel complesso positivo, e Saeko inizia a farsi le ossa come spalla di gente del calibro di Doro Pesch e Blaze Bayley. Arriviamo così al 2006: forte della nuova esperienza e di una promozione ancor più massiccia e capillare, la giovane giapponese si prepara a fare il proprio ritorno sulle scene.
Ed eccoci dunque a Life. Ora, da un certo punto di vista, non si può negare che qualche miglioramento, rispetto a quello sconfortante inno alla mediocrità che era stato il debutto, ci sia. Tra le note più positive si segnala l’arrivo della connazionale Satoko Yanagase come prima chitarrista, subito capace di trovare un buon affiatamento con la bassista Mariko Inoue e il drummer Ehre. D’altro canto, l’attività on stage (testimoniata da un paio di video inclusi nel disco) e il tempo trascorso a fianco di un’istituzione come Doro hanno senza dubbio aiutato Saeko a maturare, cosicché questa volta la ragazza si è occupata di persona della scrittura di tutte le canzoni e di tutti i testi.
Come nel debutto, le composizioni si dimostrano indirizzate principalmente verso lidi heavy-power, addolciti dal contributo occasionale del pianoforte e centrati sulle corde vocali della giovane cantante. Contrariamente al debutto, le parti strumentali ricevono una maggiore cura, e offrono di tanto in tanto qualche spunto piuttosto accattivante. Di certo più d’una affinità con la scuola teutonica che fa capo ai Warlock può essere facilmente rintracciata, ma tutto sommato sembra di poter dire che per lo più si tratti di farina del sacco di Saeko. Peccato che il contenuto del sacco non sia dei più ricchi. La gran parte dei brani infatti trascorre senza colpo ferire, affidandosi a strutture banali, giri melodici abusati e linee vocali prevedibili. E se l’esecuzione pare sempre accettabile, le composizioni soffrono di una cronica mancanza di mordente. Canzoni come Tears of Life o The Call in Us non sono propriamente brutte: sono semplicemente scialbe, scontate, inoffensive. Diversamente, pezzi come l’incipit Wings of Broken Dreams offrono una varietà di soluzioni più interessante, ma qui è proprio Saeko stessa a complicarsi la vita da sola, sforzandosi a più riprese di dimostrare la propria estensione vocale con grida un po’ stridule e del tutto fuori luogo – un errore che ripeterà in altri frangenti. I passaggi più brillanti sono al contrario quelli più misurati, e in particolare quelli che si rifanno più da vicino alla tradizione patria. E’ il caso di Sa-Ku-Ra (“ciliegio”, per i non bilingui), senza dubbio l’episodio più convincente, adornato dalla lingua e dal folclore orientale nelle sue battute iniziali e nel piacevole refrain. Si tratta sfortunatamente di un caso pressoché isolato, così alla fine delle danze la disfida tra est e ovest segnerà una piatta e noiosa vittoria di quest’ultimo.
C’è poi un altro problema, per nulla secondario, legato fatalmente ai natali della cantante – un problema assai frequente nel popolo del Sol Levante, un problema chiamato “lingua inglese”. In questo caso la cronica allergia nipponica per gli idiomi anglofoni influisce negativamente in almeno due direzioni diverse. Innanzitutto dal punto di vista della pronuncia, a dir poco inadeguata, che pesa come un macigno sulla fruibilità dei brani. In secondo luogo, e questo è forse il peggio, la scarsa padronanza della lingua impone ai testi evidenti limiti espressivi, dirottandoli dal campo della spontanea semplicità a quello dell’imbarazzante banalità. Tanto che la storia e i sentimenti di Saeko, così come emergono dalle sue stesse parole, rischiano a tratti di assumere i contorni di una farsa, proprio a causa del loro tono ingenuamente adolescenziale. A tal proposito, dev’essere imputata a puro masochismo la presenza di Eternal Destiny, un brano di puro parlato (con relativo accompagnamento strumentale) della durata insostenibile di più di otto minuti, tutto incentrato su un testo da mani nei capelli. E purtroppo non si tratta di un caso isolato, perché le sezioni in parlato sono disseminate qua e là in tutta la tracklist, a partire dall’inutile intro Leaving fino alla sdolcinata Wanna Be Free, con risultati a questo punto prevedibili.
In quest’ottica, la spiazzante cover in giapponese di My Way – sì, proprio quella My Way – superato lo shock iniziale, si rivela una reinterpretazione piuttosto curata e, se non proprio brillante, decisamente personale di un grande classico della musica leggera mondiale. L’importante, naturalmente, è non insistere troppo nel voler paragonare Saeko a Sinatra.
Che dire ancora? E’ tanto facile quanto inutile infierire su una musicista che presta il fianco con tanta facilità. La questione in realtà è molto semplice: Saeko ha avuto due grosse occasioni di associare il proprio nome a musica di qualità, e in entrambi i casi non è riuscita nell’intento. Non le si vuole negare la possibilità di migliorare, ma c’è la sensazione che la prossima eventuale opportunità potrebbe essere anche l’ultima.
Tuttavia forse è proprio tutto questo eccesso di promozione a giocare contro la giovane cantante orientale, il cui talento e il cui gusto musicale non ha avuto il tempo di maturare a ritmi adeguati, e che ora si trova tutto d’un tratto al centro della scena con i riflettori puntati in faccia: una posizione assai ambita, ma altrettanto pericolosa.
Una considerazione finale, con una punta di rammarico: se il mercato occidentale può permettersi dischi come questo, come mai non si concede anche le tanto ambite ristampe dei classici dei Loudness, o magari di qualcuna delle decine di grandi metal band giapponesi (Vow Wow, Anthem, Saber Tiger, Seikima-II, Sex Machineguns, Make-Up, EZO, Concerto Moon, X-Japan, Sabbat, Sigh…) che, tanto in campo classico quanto in campo estremo, restano esiliate nel dimenticatoio orientale, al di là della portata di tanti appassionati che potrebbero apprezzarle? La risposta alle label.
Tracklist:
1 – Leaving
2 – Wings Of Broken Dreams
3 – Tears Of Life
4 – Sa-Ku-Ra
5 – The World Of Pain
6 – Sky
7 – The Call In Us
8 – Wanna Be Free
9 – Identity
10 – Eternal Destiny
11 – My Way