Recensione: Life Is But A Dream…
L’intenzione era chiara: pubblicare il nuovo album, “Life Is But A Dream…”, solo e soltanto quando ci fosse stata di nuovo la possibilità di andare in tour. Quindi a pandemia finita. Questo ha prolungato l’attesa di milioni di fan, già in astinenza dopo i quattro anni passati dal precedente “The Stage”, e adesso pieni di motivata eccitazione per scoprire cosa hanno combinato gli Avenged Sevenfold. La band ha sfruttato il tempo a disposizione per cesellare al meglio le nuove canzoni, visto il loro essere tutt’altro che semplici, scontate e immediate.
E la cura messa si sente tutta.
Tecnicamente dei mostri, M. Shadows e soci hanno partorito con “Life Is But A Dream” il loro capolavoro definitivo, ispirato alle opere dello scrittore Albert Camus, con un sound heavy metal a tutto tondo e futuristico. Si può paragonare l’esperienza a un musical, dove la teatralità abbraccia uno spettro musicale che va dal thrash al progressive alla fusion, con groove e arrangiamenti rifinitissimi. Non viene lesinata la sperimentazione, facendo ricorso a vocoder, autotune, strumenti a fiato, pianoforte, tutto perfettamente organico.
Iniziare con una traccia dal titolo “Game Over” la dice lunga poi sul concept esistenziale, ed è un pezzo travolgente (dopo l’intro acustica), dove ascoltiamo un po’ dei vecchi Avenged, quelli devoti ai Pantera, combinati però subito alle magiche atmosfere da musical dark con i tocchi pesanti del piano e un M. Shadows che passa con disinvoltura dai toni bestiali a quelli sognanti e delicati. Proprio il cantante appare recuperato in buona parte dopo i noti problemi alle corde vocali e la sua performance è pregevole per tutta la tracklist.
Questi saliscendi gestiti tra sfuriate e stacchi pianistici funzionano bene anche in “Mattel” dove non esiste il classico refrain da cantare in coro, banalità che la band ha messo parzialmente da parte per esprimersi tramite l’atmosfera, il pathos, le svisate sintetiche di un metal quanto mai moderno e proteso all’avvenire. D’altronde si parla di una band che in oltre vent’anni di carriera non si è quasi mai ripetuta, mettendo volutamente alla prova la fedeltà dei fan con cambiamenti anche radicali, rischiando e vincendo. Il singolone “Nobody” dovrebbe essere già nelle orecchie di tutti con la sua suggestiva marzialità epica, quasi apocalittica, perciò ci si limita a sottolineare la qualità tecnica messa in campo, con un Synyster Gates che, se ce ne fosse ancora bisogno, si conferma come uno dei migliori (se non il migliore?) chitarrista dell’epoca moderna.
La travolgente sinfonia metallica continua nel secondo singolo “We Love You” (con un video che esprime la volontà dei ragazzi di esistere come unità ben piantata nell’anno domini 2023, nella sua tecnologia disturbante), dove M. Shadows si lancia in un growl asfissiante, Gates sciorina un assolo da dita lanciate alla velocità della luce, e c’è quell’ossessivo e robotico refrain che da film horror distopico. Se è possibile unire in un sol boccone i Metallica e i Pink Floyd loro lo fanno, così come si possono scorgere svariate influenze in un amalgama moderno (parola chiave) e spaziale. Gli assoli di “Cosmic” sono pura goduria perché hanno gusto e sentimento, ed è molto intensa l’interpretazione carezzevole della voce accompagnata dal pianoforte e dai fiati.
Con “Beautiful Morning” tornano al loro passato recente, macinando riff in un’aria epica dove si possono scorgere certe scorie degli Alice In Chains nel comparto vocale, ispirandosi poi ai The Beatles nella parte centrale, dove emerge un assolo vertiginoso come fossimo lanciati fuori da una capsula spaziale. Si tappino le orecchie i metallari più intransigenti se per caso volessero cimentarsi con “Easier” perché gli Avenged Sevenfold mostrano come possono convivere l’autotune, il groove chitarristico dei Pantera e i Pink Floyd; mentre “G” coniuga l’approccio ipertecnico dei Dream Theater con il funky, grazie anche alla partecipazione di una voce femminile.
“G” che è parte della trilogia “G.O.D.” portata avanti dai risicati due minuti e cinquanta di “(O)rdinary” (ancora la fusion, stavolta in un contesto da disco bar spaziale tipo “Guardiani della Galassia”) e poi conclusa da “(D)eath” che, nonostante il titolo, è un pezzo soffuso, da crooner jazz, dove M. Shadows fa un po’ il Mike Patton della situazione, gigionesco, avvolto da stelle cadenti su un tappeto sinfonico dove sono esclusi gli strumenti elettrici, ma c’è un’esplosione di fiati che è molto più metal e terrifica di un qualsiasi pezzo brutal. Si può chiudere un album metal così importante con quattro minuti e mezzo di solo pianoforte (la title track)? Sì, basta farlo con lo spirito di chi, dopo averti appena mostrato una storia e un mondo che sarà difficile dimenticare, ti accompagna verso l’uscita del teatro dandoti il tempo di guardarti intorno per capire se è stato tutto reale.
E poi, sulla porta, prima di svanire, ti lascia tornare alla tua vita. Che in fondo e soltanto un sogno.
“Life Is But A Dream” lascerà di sasso tutti, fan in primis, ma chi vive di musica heavy dovrà averci a che fare, farci i conti, perché c’è da scommettere che segnerà un nuovo punto di inizio, una svolta necessaria perché guardarsi indietro non basta più. E tante band saranno pronte a lasciarsi trasportare verso il futuro seguendo i passi degli Avenged Sevenfold.