Recensione: Lifeline
Quando nel 2002 Neal Morse decise di abbandonare gli Spock’s Beard all’apice della loro carriera artistica, molti si chiesero se da quel doloroso divorzio non ne sarebbero usciti menomati entrambe le parti, tanto la band quanto l’esule volontario. Se la strada battuta dagli Spock’s Beard è stata di sostanziale assestamento e ridefinizione degli obbiettivi, Neal ha continuato imperterrito a puntare in alto – in tutti i sensi. La riscoperta della fede è diventata il nuovo, esclusivo centro focale del suo percorso artistico: una presa di posizione tutt’altro che cattolodossa, ma che anzi si poneva e si pone in un’ottica fortemente critica delle istituzioni ecclesiastiche, rivendicando un modo di vivere la fede di chiara ascendenza protestante – ‘Sola Scriptura’ parla chiaro. La rinascita spirituale del frontman statunitense è stata celebrata nel doppio DVD ‘Sola Scriptura And Beyond‘, dettagliata sintesi di un lustro ricco di soddisfazioni. Qualcuno poteva a questo punto attendersi una pausa, ma così non è stato. La marcia sacra di Neal prosegue, implacabile, tagliando l’impressionante traguardo del quinto studio album in sei anni (senza contare le varie raccolte e iniziative parallele).
L’impostazione generale di ‘Lifeline’ si colloca in inevitabile continuità su binari già consolidati, anche se rispetto a ‘Sola Scriptura’ la tracklist fruisce di un netto alleggerimento. I brani riscoprono il piacere di un minutaggio ridotto, ricompattandosi su estensioni perlopiù umane. Non per questo manca l’ormai irrinunciabile appuntamento con la suite da mezz’ora, vera e propria fissazione dell’ultimo Morse. La stessa title-track apre l’album senza timore di spaventare nessuno con i suoi tredici/quattoridici primi di estensione.
Un Neal sempre più sicuro di sé si incarica al solito di voce, chitarra e tastiera, rinunciando quasi completamente al contributo di ospiti di peso per gli strumenti di sua competenza e restituendo la sola sezione ritmica nelle mani degli ormai affiatati Mike Portnoy e Randy George. Il songwriting gioca su due livelli: da un lato le funamboliche digressioni strumentali, dall’altro le solari melodie di scuola svedese – Kaipa e The Flower Kings in testa – sempre dirette e orecchiabili. A volte pure troppo: certe soluzioni a livello vocale, soprattutto per quanto riguarda i cori, suonano eccessivamente edulcorate anche per gli standard di Neal. Tutto questo si ripropone a livello macroscopico nei ventinove minuti della suite ‘So Many Roads’, che a fronte di una struttura figlia di una maturità compositiva fuori dal comune si permette qualche ridondanza corale a tratti un po’ stucchevole. Finché si parla di progressive, comunque, Neal tiene sempre la situazione sotto controllo, contenendo gli eccessi e traendosi d’impiccio con il consueto stile. Questo tuttavia non è sempre il caso delle tracce più brevi.
Paradossalmente, anziché trarre giovamento dalla durata ridotta, alcuni brani cadono nell’eccesso opposto, quello dell’ipersemplificazione. L’imprevedibilità del progressive viene in questi casi estromessa per lasciare spazio a soluzioni melodiche prevedibili, scontate, a tratti imbarazzanti. Saccheggiati dischi come ‘We Can’t Dance’, la tracklist osa proporre due canzonette quali ‘The Way Home’ o ‘God’s Love’, addormentate fra amenità soul e coretti parrocchiali, indegni tanto della tradizione christian rock americana quando del nome di Neal Morse. Fortunatamente non è sempre questo il caso, e difatti la conclusiva ballad ‘Fly High’ lascia aperta la possibilità di spezzare il binomio semplcità/banalità, anche grazie a un solo di gran classe da parte di Paul Bielatowicz.
Discorso a parte deve essere fatto per ‘Leviathan’, per chi scrive l’autentica perla del disco. Qui l’ex-Spock’s Beard si ricorda finalmente che cosa significa chiamarsi Neal Morse e in sei minuti fa tutto quello che si era dimenticato di fare nei pezzi contigui: strutture multiformi, soli di chitarra e tastiere mirabilmente intrecciati, sassofono di uno scatenato Jim Hoke incastonato a regola d’arte nel mezzo di partiture che non hanno bisogno di troppi tempi dispari per definirsi progressive. Fosse tutto su questa linea, ‘Lifeline’ pretenderebbe a buon diritto un posto fra le uscite top dell’anno. Il contrasto con le sezioni meno riuscite impone tuttavia di ridimensionarne in modo consistente le ambizioni.
Rivolgendosi ai dettagli, due sono le accuse ulteriori che i detrattori saranno liberi di muovere a Neal. La prima, a livello concettuale, riguarda i testi. Nulla da recriminare contro l’ispirazione religiosa delle tematiche, ma c’è modo e modo di affrontarla. Quello scelto da Neal è forse il più banale, con liriche di una semplicità tanto genuina quanto ingenua che trasudano un buonismo all’aspartame decisamente indigesto. La seconda critica, più radicale e in parte già anticipata, riguarda il sostanziale immobilismo stilistico. Le coordinate generali dell’album sono difatti le medesime che hanno contraddistinto la proposta di Neal negli ultimi anni, e le (parziali) digressioni si muovono comunque entro terre già esplorate, senza tentare pressoché nulla di nuovo.
Per quanto godibilissimo nell’insieme, confrontato con gli ultimi capitoli della discografia di Morse ‘Lifeline’ tende a suonare come un piccolo passo indietro. La sua innegabile immediatezza potrà infatti guadagnargli le lodi di qualche ascoltatore occasionale, ma quella stessa immediatezza finirà facilmente per suonare stucchevole alle orecchie di un pubblico più smaliziato. L’esame dei dettagli non manca di rivelare i tocchi di classe che ci si aspetta da Neal e soci, ma a maggior ragione spiace vederli diluiti in un contesto che non sempre li valorizza appieno. Non che a questo punto qualcuno si aspetti un brusco cambio di rotta, ma quanto meno resta auspicabile qualche scossone compositivo in più e un approccio meno semplicitico e buonista alla causa del messaggio religioso – qualcosa che ‘Sola Scriptura’ aveva saputo realizzare molto bene. Una pausa di riflessione potrebbe giovare non poco per recuperare la vena dei tempi migliori.
Per il momento i fan del chitarrista statunitense dovranno contentarsi di quanto di buono si può comunque ricavare dalle note di ‘Lifeline’ (disponibile anche in una ghiotta versione limitata con ben sei tracce bonus). Per gli altri il consiglio è rivolgersi prima al passato, anche recente: queste corde sanno offrire note di ben altro livello.
Riccardo Angelini
Tracklist:
1. Lifeline (13:27)
2. The Way Home (4:20)
3. Leviathan (6:05)
4. God’s Love (5:27)
5. Children Of The Chosen (4:57)
6. So Many Roads (28:42)
7. Fly High (6:30)