Recensione: Liferider
Nuovo lavoro discografico per gli elvetici Crystal Ball, nati come cover band dal moniker Cherry Pie e successivamente ascesi alla ribalta, proponendo un heavy abbastanza classico con influenze power. Una band molto spesso sottovalutata, ineccepibile sotto il profilo tecnico e protagonista di notevoli esibizioni in sede live, forte di un’esperienza acquisita in quasi vent’anni di carriera condividendo il palco con band storiche del calibro di Dokken, U.D.O., Doro e Krokus. Ok, per chi non li conoscesse forse in Italia il nome ricorderà un po’ le puzzolenti bolle plastico-chimiche nate in Brianza, ma non lasciamoci distrarre da tutti quei colori e concentriamoci invece sulla cover, un po’ più bruttina a livello cromatico e forse un po’ anonima (opera di Thomas Ewerhard) di questo “Liferider”, ottavo album in studio della band.
Attacco parecchio ruffiano con “Mayday”, brano immediatissimo anche se non proprio foriero di un bel volo, che mette in evidenza le doti vocali di Steven Mageney. Riffing abbastanza piatto, buoni gli armonici e tanta tastierosità nel refrain. Brano migliore del disco a detta di chi scrive, la successiva “Eye to Eye”, che vanta la partecipazione di Noora Louhimo (Battle Beast), in verità già presente nei backing vocals del brano precedente. Interessante il duetto di Steven con le due anime, quella più melodica e quella più aggressiva, della giovane cantante finlandese, che sembra quasi indicarci con un’interpretazione più marcata e contemporanea una possibile evoluzione di un sound altrimenti fin troppo stereotipato. Breve ed incisivo il solo coi suoi bending.
Il disco procede nei suoi cinquantadue minuti senza particolari picchi di intensità, sempre alla ricerca del ritornello facile ai limiti dell’AOR, come in “Paradise” o “Take it All”, a volte spingendo un po’ verso il rock più pesante ed i riff un po’ più incisivi, come in “Gods of Rock”, “Balls of Steel” e “Rock of Life”, ma finendo sempre inesorabilmente da buone premesse a risultati decisamente cheese metal. Discreta anche la ballad, “Bleeding”, che col suo arpeggio di chitarra risulta incedere in maniera abbastanza prevedibile, con l’aggiunta progressiva di tastiera, batteria, backing e solo acustico. Presente in qualità di ospite anche Stefan Kaufmann (ex-Accept, ex-U.D.O.), peraltro produttore dell’album, con la sua chitarra acustica nel mid-tempo conclusivo “Memory Run” e nei backing vocals di “Gods Of Rock“!
In definitiva, questo “Liferider” non è del tutto un brutto album. I brani proposti sono abbastanza gradevoli e meritano indubbiamente un ascolto – terminato il quale, però, poco resta. Manca infatti quel guizzo di originalità, quella spinta in più che forse avevano i primi dischi degli svizzeri (“In the Beginning” ed “Hard Impact” in primis), una scintilla che inizia a perdersi già dal disco precedente. C’è del buon hard rock con influenze power, ma quante volte ci è capitato negli ultimi (ormai quasi) trent’anni di sentire roba del genere? Troppe, per far emergere questo disco dall’oceano del già visto e sentito. Una mancanza di coraggio forse conseguenza di un successo spesso annunciato ma mai arrivato, ad un destino inseguito con dedizione ma mai compiuto, quasi una maledizione, alla quale i nostri stanno pericolosamente iniziando ad abituarsi.
Need some inspiration, get out of misery
A change of scene and… company!
Luca “Montsteen” Montini