Recensione: Ligfærd
Non deve essere facile convivere con i propri spettri, gli stessi che probabilmente fanno costantemente visita a Nortt e che egli è riuscito ad imprigionare in due full length (Graven e Gudsforladt). Non so se per lui la composizione sia sfogo o l’esorcizzare un incubo, sento però che dall’ascolto dei suoi lavori si esce sempre un po’ turbati.
Pensare ad un album del danese è riferirsi prima di tutto ad un concetto di musica estrema, quello che lui definisce Pure Depressive Black Funeral Doom Metal e che colpisce per la sua spinta teatrale ed evocativa. Nortt apre ad ogni release uno squarcio senza fondo apparente nella realtà del suo pubblico, saturandone la mente con suoni dall’altra dimensione, quella macabra e speculare alla vita, la cui forza musicale è il lasciarci soli con un silenzio finale che si ha paura di spezzare.
Ligfærd è platter funereo e senza un barlume di speranza, il cui aspetto atmosferico si spartisce equamente lo spazio con volcals e chitarre; Nortt è sofferenza nell’oscurità, descrizione e ricerca della morte. Per questo, ogni componente musicale della sua opera appare con contorni sfumati: lo scream cadaverico, i lunghissimi lamenti delle chitarre, i suoni bassi che riempiono densamente la base di ogni componimento ed il pianoforte, lasciato a rimbombare nel vuoto di una dimensione che non esiste (o che ancora non conosciamo), per descrivere attimi di mortifera solitudine.
Nortt spaventa, rapisce, trasmette mestizia, abbandono e morte a chi riesce ad esservi affine. Può però annoiare o colpire relativamente chi, come me, non prova fino in fondo il trasporto necessario per adagiarsi sulla lentezza delle ritmiche, non trovando il magnete necessario in atmosfere decisamente, e chiaramente, monotematiche. Ligfærd, infatti, non si estranea di certo da una formula di massima ben nota e per questo non riesce a convincermi del tutto, malgrado non sembri aver perso un punto della proverbiale e deviata espressività. Mi sovvengono, come sempre da quando conosco l’opera del danese, dei dubbi sul fatto che sul pubblico giochi di più il fascino del personaggio e la sua aura catacombale, che un completo coinvolgimento, non avendo mai colto grandi colpi di genio nella sua musica che non siano frutto principale dello stile che lo caratterizza, difficilmente criticabile nei suoi concetti fondamentali.
Volente o nolente, detrattore o meno, qualche congettura scompare comunque ai rintocchi dall’oltretomba di “Gudsforladt“, introduzione al solenne avvilimento di “Ligprædike“, richiamo ad un tema tipico di Nortt e pertugio attraverso il quale si insinuano le componenti di un sound subdolo. “Vanhellig” poi è lenta, dalle note d’apertura impalpabili, solidificate all’irrompere delle chitarre a diradare le nebbie, che restano però in agguato pronte a tornare esalate dal lamento vocale.
Ligfærd è un incubo macabro nel quale riecheggiano urla acute e devastanti, porta su un mondo orribile di indicibili sofferenze; Ligfærd è la voce dei defunti che vogliono braccare i vivi, disco impossibile da capire senza morire con esso per i suoi quarantacinque minuti.
Non credo che gli amanti di Nortt resteranno delusi, per gli altri dell’incertezza potrebbe non mancare anche questa volta.
Tracklist:
01. Gudsforladt
02. Ligprædike
03. Vanhellig
04. Tilforn tid
05. Dødsrune
06. Ligfærdd