Recensione: Light Upon the Wicked

Di Marco Giono - 27 Febbraio 2016 - 0:05
Light Upon the Wicked
Etichetta:
Genere: Thrash 
Anno: 2015
Nazione:
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70

 

Seguendo le narrazioni popolari e non solo… L’outback australiano è zona limite in cui la civiltà viene dimenticata e le regole si dissolvono nell’eco di vastità remote. Da quelle parti, oltre a splendidi paesaggi, si narra vi siano state storie di scomparse, a volte temporanee, a volte senza ritorno. 
Il terzo album degli australiani In Malice’s Wake s’intitola “Light Upon the Wicked” ed illumina zone remote, estreme che si perdono in quell’outback interiore che attraversa le umane genti. Il male senza ritorno. 

“The sky on fire.
Rivers flow with blood.
Mourn at the dawn of hatred.
Paradise is lost.”

Sprigiona sofferenza l’intro strumentale “Onward Human Suffering”. Non vi è alcun cartello segnaletico a indicarlo, ma stiamo attraversando il confine precario che separa gli estremi in cammino verso l’oscurità. Voci di spiriti sofferenti e fiamme infernali divampano in note di chitarre minacciose trascinate poi da un vento infinito generato da sirene assassine in volo nella notte. Esplodono riff efferati e una batteria racconta dell’epica delle terre di confine. 

“The black path no mercy in life”

Quello che si sprigiona nella seconda traccia “Bear the Cross” è thrash che ha varcato il suo limite di genere per diventare più maleficamente oscuro, vicino al death. grazie al growl di Shaun Farrugia e si tinge di black nei blast della batteria di Mark Farrugia. Nelle dinamiche dei riff ricorda gli ultimi Testament, ma a differenza di quelli concede poco alle melodie, rimanda anche allo stile estremo dei Darkane per le ritmiche serrate. In ogni caso si prosegue a testa bassa e in “Darkness” veniamo proiettiati in un headbanging da un triliardo di frames al nano secondo. Le chitarre di Shaun Farrugia e del neo acquisto Leigh Bartley sezionano riff primordiali mentre la batteria di Marck Ferrugia ha una sola missione: fare male. Quello che colpisce poi sono i suoni chirurgicamente miscelati per proiettarti in un mondo quadrimensionale saturo di violenza…#!? appare Elvis elettrif..bip..bip..#!@. Tutto scorre immutabile e brutale nell’universo degli In Malice’s Wake. Quella sorta di violenza oscura e innominabile dimora in ogni brano, non c’è mai un momento in cui il cielo rasserena, mai, solo che non sempre le loro musica riesce a trovare un sentiero certo come invece succede nella velocissima “From Beyond” oppure nella stordente “Annihilation Frost”, per non dimenticare la selvaggia “Indoctrinator”

Gli In Malice’s Wake modificano di nuovo il baricentro delle loro composizioni verso un trash ibridato nel death, senza dimenticare passaggi black ad allontarli parzialmente dal precedente “The Thrashening” del 2011 che in realtà percorreva le vie più classiche del genere thrash. Ci troviamo al cospetto di un album prodotto in maniera splendida i cui suoni non lasciano tregua esaltando le dinamiche di distruzione del gruppo australiano. Invece mi convincono di meno alcuni brani che non lasciano per davvero il segno pur mantenendo un buon livello qualitativo. La proposta degli In Malice’s Wake, ripercorrendo certe soluzioni classiche dei loro generi di riferimento, è sempre a rischio di risultare derivativa, la qual cosa tuttavia potrebbe non essere un difetto nel momento in cui cerchiamo musica potente, tirata e senza fronzoli o ambizioni avanguardistiche. Ecco in quel caso,  “Light Upon the Wicked” diventa un album da considerare con una certa priorità. Per tutti gli altri, piacendo il genere, potrebbero trovarci parecchi brani più che buoni e qualcosa che non dovrebbe essere messo mai da parte: un metal oscuro e violento nella forma primordiale del termine

 

MARCO GIONO

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