Recensione: Lighthouse
In un’intervista di qualche mese fa la cantante russa Marjana Semkina si è detta preoccupata di non poter riuscire a comunicare con i fan come faceva qualche anno fa, quando ancora non aveva firmato per una grande etichetta. Ora ha un lavoro a tempo pieno e non sa se potrà trovare sempre lo spazio, per impacchettare e spedire personalmente i cd e i vinili come ha sempre fatto. Gli iamthemorning, un duo russo formata appunto da Marjana alla voce e da Gleb Kolyadin al piano e alle tastiere, sono riusciti, dopo il bellissimo e sorprendente esordio: a pubblicare con la Kscope; sono riusciti, partendo da un album senza titolo (è solo questo il titolo: ~) e registrato parzialmente in una cucina, a suonare il loro ultimo lavoro con Colin Edwin, Mariusz Duda e Gavin Harrison (insieme a numerosi altri eccellenti musicisti); sono approdati al Be Prog My Friend; e hanno vinto il premio per il miglior album ai The Progressive Music Awards 2016. Sono riusciti in tutto questo in appena 4 anni e ancora Marjana si preoccupa di non poter impacchettare e autografare tutte le copie vendute di Lighthouse.
E basta pochissimo per crederle, per capire che non mente, che la sua preoccupazione è reale. Basta seguirla sui social, vedere come si emoziona ancora per un live di Wilson, basta imbattersi in una foto di Gleb, timidissimo con la sua maglietta di Tubular Bells. Per credere a queste sue parole basta davvero poco ma per emozionarsi con gli iamthemorning basta ancora meno. Basterebbe già aprire la busta contenente un loro album con dentro non solo il cd ma anche un origami e un fiore secco. Ma ciò che di loro emoziona di più e subito è la musica, dolcissima, malinconica, una musica che Marjana definisce gentile, triste con sofisticati arrangiamenti, tanti archi e un bellissimo piano. Sì, è triste la loro musica, lo era fin dal loro esordio, e continua a esserlo in questo ultimo loro album, che racconta di una donna afflitta da una malattia mentale, di come lei cerchi di combattere i suoi demoni, solo per essere sconfitta, o almeno così pare. No, mi correggo, non è proprio la musica a essere triste in Lighthouse, è l’argomento a esserlo, mentre la musica è edificante, in dolce contrasto col soggetto trattato, e questo per cercare di affrontarlo con calma, per far fruire un argomento, così delicato, con attenzione, con cura, con delicatezza.
Lighthouse è un album difficile, non perché necessita di più ascolti, anzi forse può più di molti altri rapire fin dal primo approccio, ciò che lo rende difficile non è nemmeno tanto la sua complessità, la quale chiede e richiede sempre ancora un nuovo ascolto. No, è difficile sopportarne le emozioni, emozioni fortissime, che commuovono costantemente, che costringono a trattenere le lacrime; e quella voce, sempre delicata, dolce, incantevole, quel piano magnifico, celestiale ti catturano, ti costringono all’ascolto ma non con violenza o con virtuosismi, lo fanno gentilmente, chiedono solo di essere ascoltati e seguiti e un fruitore sensibile non può farne a meno, può solo tentare di trattenere le lacrime.
Trovo sempre insensato stilare classifiche di album e penso sia ancora più folle farlo in questo 2016, un anno bellissimo e colmo di lavori eccellenti, semplicemente perché un’opera non può esser indicata come migliore di un altra, quando si è in presenza di vera arte musicale. Quindi non definisco Lighthouse il miglior album dell’anno, anche perché sarebbe riduttivo verso tutti, verso Lighthouse stesso, perché non tra i migliori solo del 2016; è un’espressione totalizzante, un faro non solo per il rock progressivo e non solo per la musica ma è un faro per chiunque in futuro voglia esprimersi artisticamente.