Recensione: Lights On
Terzo album per gli americani Sanhedrin, che a tre anni da “The Poisoner” tornano sulla scena mondiale con questo “Lights On”, in uscita domani. Il trio di Brooklyn propone come al suo solito un heavy metal che più ortodosso non si può, con tanto di derive hard n’ heavy per togliere anche il minimo dubbio sul proposito dei nostri: far rivivere ai fan il profumo dei primi anni ’80 spolverando via l’eventuale dito di polvere con una ventata di energia contemporanea. Otto tracce per neanche tre quarti d’ora di musica concentrata, pulsante e sfrontata, che permette ai nostri di dire quello che vogliono e mandare tutti a casa: niente lungaggini, niente pause e niente deviazioni in territori inesplorati per tirare sul minutaggio, ma solo una sana e rombante infornata di metallo ignorante e sanguigno, abilmente venato di blues qua e là e dotato di melodie immediate e dal buon impatto. I ritmi non superano mai la soglia di guardia, mantenendosi agili ma non troppo per la maggior parte del tempo, col trio che decide di puntare maggiormente sulla carica anthemica che su architetture sonore articolate o straordinari effetti speciali. Ne viene fuori un lavoro godibile, strafottente e cafone, che omaggia un certo tipo di musica dura in modi a volte troppo pronunciati ma condisce il tutto con un tiro meritevole di rispetto, onesto e ribelle, che distrae da una materia prima un po’ abusata. Durante l’ascolto di “Lights On” aspettatevi quindi canzoni immediate e accattivanti, ben eseguite, dinamiche il giusto e concentrate sull’obiettivo ma a cui manca la zampata finale, la classica ciliegina sulla torta che le trasformi in pezzi memorabili.
Si parte a bomba con “Correction”, singolo apripista rilasciato qualche tempo fa: ritmi pulsanti e riff caciaroni la fanno da padroni, mentre Erica esibisce un’attitudine sfacciata e propositiva contribuendo così a confezionare la classica cavalcata per scaldare i motori. La title track punta su un incedere più rockeggiante, agile, in cui il trio mantiene un tiro stradaiolo che, se ogni tanto strizza l’occhio a certi Kiss, non perde occasione di pavoneggiarsi con un atteggiamento arrogantello durante il chorus. L’intermezzo più sognante che apre la seconda parte introduce una bella sezione strumentale (che, nonostante profumi di già sentito, colora il brano con pennellate stilose) e traghetta alla successiva “Lost at Sea”. Qui un arpeggio arioso che ritroveremo anche nel prosieguo del pezzo introduce una traccia ritmata, ancora sfacciatamente stradaiola, che si carica di ulteriore cafonaggine durante il ritornello. I ritmi si mantengono contenuti, salvo esplodere durante il brevissimo assolo che prelude all’alzata di tono finale. Con “Change Takes Forever” i nostri alzano i giri del motore, caricando l’intelaiatura heavy rock della giusta spinta, litigiosa e beffarda, che si stempera solo durante il ritornello. “Code Blue” parte lenta e concede ad Erica il tempo di sfruttare, almeno nella strofa, toni meno arcigni; la sveglia arriva, naturalmente, con l’arrivo del chorus, dirompente e nuovamente sfacciato. L’arpeggio centrale introduce nel tessuto del trio di Brooklyn una nuova inquietudine, che si carica di toni vagamente acidi prima del ritorno dei riffoni agguerriti che chiudono il pezzo. “Scytian Women” scompagina le carte, aumentando nuovamente i giri del motore per diffondere, stavolta, un rinfrescante mix tra l’attitudine motörheadiana, abrasiva e viscerale, e un trionfalismo smaccatamente heavy, arrivando come una folata di vento ed andandosene via in poco più di tre minuti. Un arpeggio languido introduce “Hero’s End”, brano di classico heavy metal sulfureo e quadratissimo, sempre in bilico tra uno sviluppo sognante e sfuriate cupe e graffianti. Chiude l’album “Death is a Door”, la cui apertura compassata, quasi notturna, introdotta da una melodia vagamente western su cui si appoggia una Erica più sognante del solito, sembrerebbe far presagire l’arrivo di una ballatona in salsa country, con buona pace del Flagello di Carpazia. Niente di più sbagliato, visto che in meno di due minuti il dinamico trio torna a snocciolare riff cromati e un’indole ribelle, per una traccia che profuma di road music da chilometri di distanza. Climax finale, dissolvenza sonora, silenzio di pochi secondi e si torna al profumo desertico che aveva aperto il pezzo, che pone il suo sigillo in modo vagamente ipnotico su un album energico ma in cui si percepisce in più di un’occasione la mancanza di qualcosa di indefinito. “Lights On” è senza dubbio un buon lavoro, un heavy rock scritto e suonato col cuore, immediatamente familiare all’orecchio e capace di crescere con gli ascolti: un perfetto album da viaggio col suo poetico retrogusto di strade assolate, vento tra i capelli e odore di benzina, nonché una bella colonna sonora per darsi la carica mentre si fa altro che però, forse proprio a causa di questa sua immediatezza schietta e onesta, a parte poche eccezioni tende a dissolversi dalla memoria al termine dell’ascolto. Un buon album, che di certo farà la felicità dei rocker più duri e puri.