Recensione: Lightwork

Di Stefano Usardi - 27 Ottobre 2022 - 9:05
Lightwork
Etichetta: Insideout Music
Genere: Progressive 
Anno: 2022
Nazione:
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84

Tre anni dividono “Empath” da questo “Lightwork”, ultimo album di quel geniaccio di Devin Townsend: tre anni durante i quali, come sappiamo, sono successe un po’ di cose. Come già successo ad altri prima di lui, Devin ha deciso di passare il suo tempo durante la pandemia scrivendo nuovo materiale ma, diversamente dal modus operandi canonico del canadese, questa volta è stato affiancato da un produttore (l’amico fidato Garth Richardson) per la selezione del materiale da inserire nell’album. Questa uscita dalla comfort zone, se in un primo momento ha causato al buon Devin qualche grattacapo gli ha comunque consentito di muoversi in direzioni inaspettate, portandolo in territori che, per sua stessa ammissione, se lasciato da solo al comando come al solito non avrebbe nemmeno considerato.
Concettualmente, l’album parte come una riflessione  di Devin sulle sue paure e aspirazioni a questo punto della sua vita, per poi spostarsi su un livello più universale di indagine introspettiva che porti l’uomo ad una maggiore comprensione di sé stesso. Questo messaggio viene veicolato attraverso il solito lavoro certosino di stratificazioni sonore in cui convivono rock, pop, progressive, elettronica, new wave e ambient, il tutto filtrato dalla sensibilità onnivora e aggregante del canadese. L’opera di rifinitura all’interno di “Lightwork” raggiunge livelli altissimi, ma lo fa senza risultare artefatto o vanaglorioso: ogni traccia possiede una personalità definita, ma si avverte anche distintamente la sua appartenenza ad un corpus più complesso che fornisce una chiave di lettura addizionale. Questa ambivalenza crea un moto ondoso continuo ed ipnotico, che anche nei momenti più cupi mantiene una sorta di innata serenità di fondo: “Lightwork” è un album in cui la musica si ritorce su se stessa senza soluzione di continuità, esprimendo di volta in volta delicatezza, dinamismo, ansia, meraviglia e malinconica, ma senza mai allontanarsi troppo dalla speranza.

La sirena lontana di una nave introduce “Moonpeople”, pezzo dall’incedere rilassato che si distende indolente su una base elettronica, elargendo una gradevolezza rassicurante e sorniona screziata, però, da sporadici passaggi più spessi, echi ambient vagamente dissonanti e pennellate melodiche dal piglio arioso. La successiva “Lightworker”, invece, prende un’altra rotta, giocandosela con un ritmo setoso in odor di anni ’50 inframmezzato da improvvise impennate più incombenti, che donano al pezzo un taglio carico di pathos. Gli inserimenti di voci bianche donano il giusto contrappunto al tessuto maestoso del pezzo e ci accompagnano al finale sfumato che cede il passo a “Equinox”. Qui si riprende l’indolenza della traccia d’apertura e la si ammanta di melodie policrome, estive: ne esce un pezzo multiforme, che passa da un’apertura in sordina, quasi timida, a uno sviluppo in cui si percepisce un piglio vagamente surf scivolarne sotto la superficie. Il pezzo si carica col minutaggio, aggiungendo strati su strati (che comprendono le prime harsh vocals dell’album) ma si diverte a tornare sui suoi passi, saltellando tra i suoi profumi e giocando con la propria natura cangiante. “Call of the Void” si mantiene sulle medesime coordinate aggiungendovi una certa malinconia di fondo, guidata da un arpeggio crepuscolare e una voce che, da inizialmente dimessa, esplode poi nella pienezza liberatoria della seconda parte prima di spegnersi nuovamente nel finale. La partenza di “Heartbreaker” è determinata, ma la musica impattante viene subito smorzata da una componente vocale più languida. Il pezzo gioca con questa ambivalenza inserendo passaggi dai toni che di volta in volta si fanno nervosi, beffardi, freddi, alieni, e sembrano guidare il pezzo verso atmosfere meno tranquille del solito. L’ansia si stempera lentamente solo nell’ultima parte del pezzo, per poi vedere il ritorno di melodie nuovamente solari giusto in tempo per il finale che sfuma nella successiva “Dimensions”. Qui le atmosfere si fanno subito cupe, claustrofobiche, ansiose, riecheggiando in un certo modo i profumi del capolavoro “City” anche grazie all’approccio vocale più acido e alle melodie fredde, dal retrogusto industrial e il piglio minaccioso. Questa morsa si alleggerisce di poco a metà traccia, con l’entrata in scena di melodie meno opprimenti, ma non perde mai la sua presa, facendosi anzi più frenetica nella seconda parte e fungendo da ideale contraltare oscuro alla generale positività di “Lightwork”. “Celestial Signals” accorre a stemperare la tensione accumulata con un’apertura enfatica che sfuma poi in un pezzo che fonde melodie maestose, elettronica e certo pop anni ’80. L’alternanza di questi elementi crea un’atmosfera avvolgente e propositiva, che di nuovo si stempera in un finale più compassato e tranquillizzante. La ritmata “Heavy Burden”, scandita dal ritorno delle voci bianche che duettano con quella filtrata di Devin, stabilisce un tono sempre più rilassato, anche grazie al suo sviluppo indolente e leggero che trova compimento nella traccia successiva, “Vacation”. Nomen omen, dicevano i nostri antichi padri, e in effetti il tono del pezzo è quanto di più disteso e vacanziero potreste immaginare, tutto giocato intorno ad un giro di chitarra acustica che sorregge una voce sommessa: uno di quei brani fatti apposta per spegnere il cervello mentre si sorseggia un aperitivo al tramonto sulla spiaggia. Chiude l’album “Children of God”, lunga suite di dieci minuti che racchiude gli elementi cardine di “Lightwork”. Il pezzo si distende su ritmi blandi, stratificando livelli sonori con apparente noncuranza ma che gli donano una grandeur avvolgente e variopinta (si vedano ad esempio gli inserti corali filtrati che si insinuano tra una melodia maestosa e un’improvvisa eco di voce più dura che si spegne in lontananza). Gli intrecci di voce sussurrata che occupano la seconda parte smorzano la carica propulsiva del pezzo, creando un tappeto quasi meditativo che sfuma nel silenzio interrotto, poco dopo, da voci lontane e dai rumori del mare che si ricollegano alla sirena dell’apertura.

Secondo le parole del suo creatore, “Lightwork” può essere visto come un album di transizione: niente di più vero, sia che prendiate il termine nella sua accezione di ponte ideale tra due mondi diversi, sia che lo consideriate un album da viaggio, un amico fidato e rassicurante che vi tenga compagnia durante il cammino. Probabilmente il tono troppo rilassato e sornione di “Lightwork” lo renderà inviso a chi si aspettava qualcosa di più enfatico o cervellotico, ma per quanto mi riguarda non fa che confermare per l’ennesima volta le qualità compositive e la duttilità espressiva di Devin Townsend. Da ascoltare.

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