Recensione: Lila H
Formati nel lontano 2005 da Foued Moukid, gli ArKan esordirono tre anni più tardi con l’album “Hilal”, proponendo essenzialmente una variegata commistione di death metal melodico dalle tonalità arabe, strumenti folk -come oûd, mandola, derbouka, bendir, cajon, tabla e bouzouki -, voce tradizionale maschile e femminile. Con queste premesse la band rilasciò poi gli album “Salam” (2011) e “Sofia” (2014) mentre da “Kelem”(2018) cambiarono decisamente le carte in tavola, anche in seguito all’abbandono della cantante Sarah Layssac. “Lila H”, quinto full-lenght uscito nel 2020 è l’ulteriore metamorfosi di questo nuovo corso.
Se nei primi tre lavori c’era una potenza luminosa – vicina agli Orphaned Land in “Hilal ed in “Salam” ed affine anche a certe cose dei The Gathering e dei Lacuna Coil in “Sofia”- con “Kelem” i Nostri avevano acquisito tinte oscure e fredde, a tratti “depressive”, riducendo drasticamente il lato folk.
Per comprendere il nuovo “Lila H” dobbiamo un po’ guardare al significato dietro al suo nome ed al tema di fondo. “Lila H” significa principalmente “in nome di Dio”, ma anche “notte” in arabo e si riferisce al periodo nero che Samir e Mus – due membri della band- hanno vissuto in Algeria durante la Guerra Civile. Un concept-album che si ispira a quell’adolescenza spesso dolorosa, circa brevi storie ed aneddoti.
Ecco che viene accentuato l’aspetto buio ed estremo della musica – a volte quasi brutal death – e dall’altro ne aumenta pure i contrasti. Tra la base tenebrosa ed il becero ed efficace growl si staglia particolarmente l’ottimo clean di Manuel, nell’organico già dal precedente disco, rimpiazzando di fatto Sarah. Dotato di un timbro acuto (accostabile a tratti al migliore James LaBrie) e tonalità quasi algide, passa con versatilità da sentimenti più delicati a quelli più veementi, mantenendo sia uno spirito leggero che una consistenza assai persistente, incisiva ed empatica.
Si potrebbe quasi pensare che conferisca ai pezzi una sensibilità femminile e “Lila H” è anche un nome femminile, definizione che la band trova alquanto spesso nella propria musica. Questa sensazione si potrebbe trovare nella pienezza delle melodie e degli arrangiamenti, nelle complesse strutture dall’aria prog fatte con un sottile gusto per il bello.
Nel nuovo disco vengono recuperati parecchio suggestioni e strumenti tradizionali, elementi resi in modo a volte paragonabile (seppur stilisticamente diversi) a quello degli irlandesi Primordial, nel loro essere quasi “sotterranei”. In altri casi l’animo folk è espresso in modo più marcato, come certi passaggi vivaci di “Black Decade”. L’atmosfera generale -intermezzi esclusi- è opressiva ma capace di una resilienza scintillante e per questo il presente album può richiedere alcuni ascolti. In quanto a violenza “Dusk to Dawn” e “Shameless Lies ” sono tra i brani più cruenti del disco, battuti solo da “Surrounded” la canzone più dura, più diretta e meno folk del lotto, nonchè quella cantata interamente in growl. I primi due pezzi citati forse possono vagamente indugiare in qualche dispersione prolissa, caratteristiche un filo riscontrabili pure in “Broken Existencies” e “Black Decade”. Si tratta, tuttavia, di canzoni fondamentalmente valide, con una menzione speciale per quest’ultime due per l’equilibrio tra aggressività e ricercatezza. “Resilience” d’altro canto sorprende per una tendenza distesa, dal respiro quasi doom.
Se cerchiamo la parte più riuscita dell’opera quella si può trovare – complessivamente – nell’intermezzo folk “Remembrance” condotto in maniera squisita dal cantato in pulito di Manuel, che continua nella stupenda “Seeds of War”. Quest’ultima risulta ispiratissima tra cuore riflessivo ma granitico, semplicità e complessità impreziosite da echi avantgarde.
Degne di nota la compatta e concisa “Crawl” e “My Son”. La prima è sferzante come una tempesta di sabbia e dotata di un fascino spettrale, mentre “My Son” colpisce con arrangiamenti malinconici, quasi alternative metal.
Con “Lila H” gli ArKan ci offrono un lavoro caratterizzato da un’ottima produzione che, al netto di alcuni difetti compositivi, si rivela complessivamente più che buono, nonchè una decisa risalita qualitativa rispetto a “Kelem”. Il suo punto di forza sta nella diversità delle due voci maschili e nella grandissima profondità sia tecnica che strumentale.
Un nuovo equilibrio per la band, che a suo modo ri-definisce una sua più che discreta identità nel contesto folk metal attuale.
Elisa “SoulMysteries” Tonini