Recensione: Lillie: F-65
A distanza di diciassette anni dal loro ultimo disco, tornano le leggende del doom metal Made in USA: i SAINT VITUS! Se siete solo minimamente interessati al genere, saprete sicuramente di chi stiamo parlando. Se, invece siete stati attirati dalla sgargiante immagine di copertina, dal nome accattivante del disco o avete semplicemente cliccato nel posto sbagliato, magari vi farà piacere conoscere qualche notizia addizionale. Escludendo uno iato di quasi una decade, questi veterani della musica sono in giro da quarant’anni; la prima formazione, infatti, vide la luce nel 1978. Non si può certo dire che la band sia stata particolarmente prolifica nel corso della sua esistenza (questo che abbiamo tra le mani è, infatti, l’ottavo capitolo della loro discografia), ma di certo è riuscita a dare alla luce alcuni dei migliori e più importanti album della storia del genere come, ad esempio, il classico Born Too Late. Proprio in quel disco faceva la sua comparsa Scott “Wino” Weinrich, tornato adesso dietro il microfono per registrare quest’ultima fatica del gruppo statunitense.
Dopo tanti anni di inattività, l’arrivo di questo disco ha fatto serpeggiare un dubbio tra i fan: il narcotico che dà il titolo al CD è una temibile metafora per un prodotto noioso o una velenosa garanzia per un viaggio allucinante nell’oscurità della mente umana? Staremo a vedere…
Appena avviata la riproduzione di Lillie: F-65, rimaniamo immediatamente invischiati in una coltre pesante e densa, ritmi lenti e cadenzati vengono scanditi con metodica scabrezza dalla batteria di Vasquez, mentre il basso di Adams pulsa malevolo: dalle casse del nostro stereo prende vita Let Them Fall, un’apertura che lascia subito ben sperare, un brano di doom metal vecchia scuola che affonda le sue radici contorte in un terreno acido, una marcita che ha cominciato la sua decomposizione sonora quarant’anni fa. Wino accompagna i lenti riff con degli ululati sofferenti, mentre la chitarra si contorce su sé stessa in un delirio cupo e allucinato. Proseguiamo nell’ascolto e vediamo quanto c’è di vero nell’adagio secondo cui chi ben comincia è a metà dell’opera. The Bleeding Ground continua a riproporre soffocanti ritmi ossessivi, voce e strumenti si alternano in un botta e risposta incessante, che vede un lento oscillare tra le gravose martellate della sezione ritmica e il tagliente timbro delle sei corde di Chandler. Il pezzo è praticamente identico per i primi quattro minuti, una sorta di mantra asfissiante che stringe la gola dell’ascoltatore; proprio quando cominciano a sorgere i primi interrogativi, il gruppo ci spiazza completamente con uno strumentale furioso, veloce e sporco, che spazza via qualunque perplessità e apre la strada per l’ipnotico incipit di Vertigo.
Lo strumentale è narcotico, allucinante, le note si allungano e si stirano, gli arpeggi si intersecano e si intrecciano creando una rete che ci intrappola e ci blocca sulla sedia, mesmerizzati e incapaci di accennare una benché minima reazione. Davvero intrigante. Blessed Night è un buon pezzo, sebbene non tiri fuori nulla di nuovo dal cilindro. Sarebbe assurdo definirlo scolastico, visto che la scuola è stata fondata proprio da questi signori, ma questa surreale descrizione è abbastanza calzante. Il brano si inscrive perfettamente nella tradizione del doom metal vecchio stampo, senza aggiungere niente, ma rimanendo comunque di buon livello.
Ponderoso e brutale, The Waste of Time mette alla prova i bassi del nostro impianto stereo. Alzate pure il volume se volete vedere gli oggetti intorno che tremano accompagnando i pulsanti sommovimenti che scortano i distorti tremolii di chitarra. Una traccia che picchia durissimo nella testa e nelle orecchie, stordendoci quanto basta per lasciarci confusi quando dall’impianto di amplificazione striscia fuori sommessamente Dependence. Soffocato e attutito, il pezzo prende forma adagio, in un incedere lento e inarrestabile che finisce per dare forma a un affresco composto da elementi di certo già sentiti, ma di sicuro ben accostati. L’interminabile distorsione mediana è decisamente troppo lunga ed è con gioia immensa che accogliamo la ripresa del fraseggio principale, breve passaggio verso lo strumentale finale, Withdrawal, un nuovo concentrato di dissonanze e alterazioni che sancisce il termine del disco quattro minuti troppo tardi.
A parte un epilogo che, come avrete intuito, non ho particolarmente apprezzato, non posso che ammettere con piacere che questo ritorno sul mercato del quartetto statunitense mi ha decisamente conquistato. Le tracce si susseguono senza intoppi, la produzione è di buon livello e i musicisti svolgono egregiamente il loro lavoro. Il tempo non ha lasciato cicatrici troppo profonde nella band, che riesce a destreggiarsi senza problemi per la mezzoretta che compone il disco.
Peccato che l’album sia davvero molto breve e che i Saint Vitus non abbiano deciso di osare di più sperimentando, magari, qualche soluzione alternativa. Forti del loro nome, hanno realizzato un disco di doom metal rigoroso e accattivante, che di certo non scontenterà gli appassionati del genere e si inserisce senza imbarazzo all’interno di una discografia di alto livello come quella della band.
Damiano “kewlar” Fiamin
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Tracce:
1. Let Them Fall – 3:52
2. The Bleeding Ground – 6:07
3. Vertigo – 2:37
4. Blessed Night – 3:59
5. The Waste of Time – 5:39
6. Dependence – 7:36
7. Withdrawal – 3:26
Formazione
Dave Chandler: chitarra
Scott “Wino” Weinrich: voce
Mark Adams: basso
Henry Vasquez: batteria