Recensione: Live in Japan 2018
Ogni morte di un artista mi rattrista, nessuna esclusa. Ce ne sono tre che però mi hanno dato molto da pensare; quelle di Cliff Burton, Chuck Shuldiner e Mark Reale.
Quella del leggendario bassista dei Metallica, innovatore come musicista e come compositore, morto a soli ventisei anni per essere stato nel posto sbagliato al momento sbagliato (una cuccetta del tourbus che si è dimostrata una trappola mortale durante un incidente), mi ha fatto riflettere su quanto ‘sia un attimo’, di quanto il durare della nostra vita non dipenda, per nulla, da noi.
Quella del fondatore dei Death, creatore del Death Metal, eterno ispiratore di quasi tutti i gruppi a venire, dovuta ad una bestia, chiamata cancro, che ha attaccato la fonte della sua genialità, il cervello. Mi ha colpito la lotta che l’uomo ha intrapreso per sconfiggere il male che lo ha attanagliato ed, alla fine, purtroppo, all’età di trentaquattro anni, sconfitto.
Di Mark Reale, grande chitarrista, fondatore e mente dei Riot, mi è invece rimasta impressa la sofferenza con cui ha convissuto, essendo affetto dal morbo di Crohn fin dalla nascita, malattia autoimmune che aggredisce il tratto gastrointestinale con sintomi devastanti che possono essere solo controllati ed assopiti ma non debellati, non esistendo cura. Mark ha vissuto così, fino a cinquantasei anni, quando un’emorragia causata dal morbo, lo ha stroncato. Eppure, nonostante questo, ha portato avanti con forza la sua carriera di musicista, superando i momenti di sconforto, come il non riuscire a mantenere stabile la formazione della sua creatura, i continui scioglimenti, le riunioni od alcuni album non proprio accolti favorevolmente. Poi, appena ritrovata la stabilità, poco dopo la pubblicazione di ‘Immortal Soul’ nel 2011, che ha ridato il giusto successo ai Riot, arriva la sua morte, improvvisa, terribile, ingiusta (come ogni morte del resto) che sembra mettere la parola fine a tutto il suo lavoro.
Si è pensato che brani leggendari, come ‘Thundersteel’, ‘Swords and Tequila’, ‘Outlow’, ‘Metal Soldiers’ e molti altri, non potessero più essere ascoltati dal vivo, ma solo attraverso le loro registrazioni.
Invece no: Donald Van Stavern, presente dal 1986, e Mike Flyntz, entrato nel 1989, decidono di onorare la memoria di Mark e, ottenuta l’autorizzazione da sua madre, rifondano i Riot, affiancando al nome il numero romano ‘V’ (che sta per versione numero cinque della band).
Con il nuovo monicker la band sforna due album: ‘Unleash the Fire’ del 2014 e ‘Armor of Light’ del 2018, proseguendo la sua carriera nel nome ‘dell’anima immortale’ di Mark Reale.
E cosa c’è di meglio se non un live per celebrarlo, un live particolare che ripercorre la carriera del combo con, al suo interno, un momento cruciale: tutto l’intramontabile ‘Thundersteel’, ogni singola canzone dell’album uscito nel 1988, riconosciuto, ancora oggi, come il miglior lavoro della band, insieme a ‘Fire Down Under’ del 1981.
Pubblicato sia in formato DVD che come doppio CD audio, disponibile dal 2 agosto 2019 via AFM records, il lavoro, dal nome ‘Live in Japan 2018’ (per non confonderlo con ‘Riot in Japan – Live’ del 1992) mostra una band compatta, forte e risoluta, che non ha perso l’inconfondibile stile nato con Mark.
La forma è smagliante, le chitarre sprizzano elettricità, la voce potenza (anche se c’è qualche momento in cui va troppo in alto), la sezione ritmica è serrata e precisa.
Insomma, è un album che ci voleva, che ci fa ricordare che i Riot, con o senza il ‘V’, scegliete voi se ci deve stare o meno, sono ancora storia.
Ventitre brani che ripercorrono la loro vita, partendo dall’ultimo album ‘Armor and Light’, dal quale estraggono la Title Track e ‘Messiah’, per continuare con ‘Unleash the Fire’, rappresentato da ‘Ride Hard Live Free’, ‘Fall From the Sky’, ‘Land of the Rising Sun’, ‘Take Me Back’ e ‘Metal Warrior’.
Da ‘Immortal Soul’ è estrapolata solo ‘Wings Are For Angels’ mentre dall’introspettivo ‘Inishmore’ si ascolta ‘Angel Eyes’.
Dal grande ‘Privilege of Power’ sono tratte le dinamiche ‘On Your Knees’ e ‘Metal Soldiers’, mentre, come già detto, ‘Thundersteel’ è suonato per intero.
Chiudono tre brani degli inizi: ‘Road Racin’’, da ‘Narita’ del 1979, l’immancabile ‘Swords and Tequila’ dall’immenso ‘Fire Down Under’ del 1981, un classico tra i classici, equivalete, come importanza, a ‘Running Free’ degli Iron Maiden e ‘Breaking the Law’ dei Judas Priest … semplicemente indimenticabile, e ‘Warrior’, da ‘Rock City’ del 1977.
Una scaletta tosta, della quale è inutile descrivere i singoli brani, che rende bene l’idea di cosa sono stati, di cosa sono e di cosa possono ancora essere i Riot V.
La versione CD presenta sfumature e momenti di silenzio tra un brano e l’altro, che potevano essere evitati in sede di missaggio per dare l’idea di un unico concerto. Il sottoscritto preferisce però così, ritenendo che, in questo modo, i Riot V dimostrano che sono una band vera, che il palco è la loro casa e che non hanno bisogno di nascondersi dietro ad artifici sonori. Se i brani non sono stati eseguiti nella sequenza registrata è giusto saperlo.
Di più non si può dire. Grandi Riot V, il bersaglio è stato centrato.