Recensione: Live: Right Here, Right Now
I Van Halen sono stati, probabilmente, tra i gruppi più importante della storia della musica ottantiana. Già, perché il loro disco di esordio (datato 1978) influenzò pesantemente i suoni e le produzioni di tutta la musica di quel periodo, dal pop al metal, esattamente come farà “Smells like…” dei Nirvana all’alba dei ‘90s. Più specificatamente, l’omonimo debut dei Van Halen si segnala per due motivi essenziali: il primo è che il dischetto fu la risposta americana alla nascente NWOBHM, ed il secondo è che lo stile chitarristico ritmico e solista del fondatore Eddie Van Halen influenzerà il modo stesso di concepire la sei corde metal (e non solo) negli anni a venire.
Orde di chitarristi venuti prima e dopo di lui gli dovranno molto (Randy Rhoads, Kirk Hammett, Steve Vai, ma anche Brian May, Steve Howe, Steve Hackett e ancora molti altri), la figura stessa del guitar hero è dovuta essenzialmente a lui, e non è più mistero che la seconda rivoluzione della sei corde dopo Hendrix fu sua. Perfezionando la tecnica del tapping con lo strumentale “Eruption” Eddie in poco più di due minuti cambiò la storia. Ma “Van Halen” fu un’arma a doppio taglio, perché se da un lato fu il migliore esordio che un gruppo hard potesse desiderare (più di 10 milioni di copie vendute negli USA), dall’altro causò alla band la frustrazione di non riuscire a mantenersi qualitativamente allo stesso livello. Precisiamo, i dischi successivi furono ottimi album (cito solo “Van Halen II”, “Women & children first”, ed il top seller “1984”), ma che non riuscirono a competere con QUELL’ album, che sicuramente è tra i primi 10 platter della storia del metal.
Quando all’apice del successo il singer “Diamond” David Lee Roth abbandonò la band, le cose presero una piega ancora peggiore: in sostituzione arrivò l’ex Montrose (grande ispirazione per la band) Sammy Hagar, cantante dalla voce incredibile, meno calda di quella del predecessore, ma più grintosa (e dalla notevole estensione), ma i vecchi fans risposero delusi (anche se le vendite non subirono particolari flessioni), e non completamente a torto…Le produzioni dei Van Halen si erano fatte sempre più raffinate, perdendo la ferocia dell’esordio, e su disco la cosa si faceva pesantemente sentire a discapito di un songwriting la cui classe non scendeva di un millimetro. Con Hagar i Van Halen scrissero delle stupende canzoni Aor/pop metal, che però restavano intrappolate tra i solchi del vinile. Al momento di calcare il palco, però le cose prendevano un’altra piega, le song erano libere di esplodere in tutta la loro potenza, riprendendo quello che era stato l’approccio al disco d’esordio.
Con “F.U.C.K.”, la band aveva creato un platter praticamente perfetto dal punto di vista del songwriting, ma ancora una volta carente sotto il lato della potenza. Per fortuna giunse questo live incredibile a mettere le cose a posto: incentrato quasi esclusivamente sul periodo di Hagar, questo doppio è la perfetta rivincita dei Van Halen, che possono guardare senza più timore al loro glorioso passato. La partenza con il trapano di “Poundcake” ed il metal puro di “Judgement day” è delicata come un panzer in movimento e dopo il breve relax della dolcissima “When it’s love” si riprende a macinare riff con “Ain’t talking ‘bout love”, mentre il solo finale di “Dreams” spazza via la discografia intera dei vari Malmsteen di turno. Stupendi i siparietti che si ritagliano il sottovalutatissimo Michael Antony, con il suo Jack Daniel’s bass, e Alex “fratello di Eddie” Van Halen, autori di due notevoli solos. Tutte le canzoni qui presenti sono da urlo, condite dalle grida di un pubblico che letteralmente idolatra i quattro rockers. Come non menzionare la potenza ritmica di “Panama”, o la sempre incredibile “Right now”, canzone che si divide tra atmosfere inquietanti, intrecciate da un piano dalle vaghe reminiscenze “sabbathiane” (non dimentichiamo che Mr.Iommi è da sempre una delle più grandi ispirazioni di Eddie), ed un ritornello tanto semplice quanto efficace.
C’è spazio anche per un vecchio hit di Sammy Hagar, “One way to rock”, fucilata metal, dove il singer si diverte a duellare, nell’impari duello alla chitarra, con l’amico Eddie, dimostrando, pur non essendo all’altezza dell’”olandese volante”, di saperci fare non solo con la voce. Continuare ad elencare una serie di titoli, che vanno da “Best of both worlds” a “Jump” al vizioso inno al blowjob “ Finish what ya started” , passando per “Why can’t this be love?” ed il medley “316/Eruption”, non renderebbe giustizia a questo capolavoro tra gli album live, che merita di comparire a fianco di pietre miliari, come “Made in Japan”, “Unleashed in the east” e “No sleep ‘til Hammersmith”. Val la pena solo di citare il probabile apice del disco, che è rappresentato dalla conclusiva “Top of the world”, dove finalmente i Van Halen, possono appunto mettersi in cima a quel mondo che dal 1985 hanno sempre avuto contro e ridergli un po’ in faccia senza timore e con molta ironia, e per loro (e anche per il buon David Lee Roth) la cima del mondo è il posto migliore, perché, come cantava qualcuno, “A little ain’t enough”…