Recensione: Living Mask
“Black Hole é un’entità indefinita, perché predispone in campo teorico-filosofico la materializzazione, tramite la ricerca sonora, di una serie di principi esistenziali che il gruppo deve difendere. Una nuova vita, concepita senza l’ausilio di grazie materialistiche puramente terrene, e una consequenziale ricerca nell’assenza viscerale del proprio spirito, sono alla base di un progetto che immaginifica l’aldilà nelle sue visioni positive e negative, cercando di creare un clima mistificante dalle reminiscenze tardo-gotiche…”
Roberto “Measles” Morbioli, cantante e polistrumentista della band nata sulle rive dell’Adige, iniziava con queste parole la risposta alla domanda “Perchè Black Hole?” in una vecchia intervista riportata sul libro “Sub Terra” (Eduardo Vitolo, Tsunami Edizioni). Queste parole rappresentano e descrivono come meglio non si potrebbe l’universo musicale di Morbioli e dei suoi Black Hole.
Ma procediamo per gradi. La band di Verona pubblica il primo full length, il seminale “Land Of Mystery”, nel 1985, album che diverrà presto oggetto di culto tra i collezionisti. Il disco mette in mostra una band ispirata, capace di creare canzoni che inglobano influenze provenienti dalla NWOBHM, dai Black Sabbath e dai Van der Graaf Generator. L’idea di quel clima dalle reminiscenze tardo-gotiche, citato dalle parole di Morbioli, è presente ma ancora acerbo, quantomeno per quanto attiene la Sua personale visione. Poco dopo, le differenti idee sul sentiero da percorrere portano alla separazione, con qualche piccolo strascico, tra Morbioli ed il chitarrista e batterista che l’avevano seguito sino a quel momento, Nicola Murari e Mauro Tollini.
Questa scissione, permette ad entrambe le anime che alimentavano il gruppo di sviluppare al meglio le proprie idee in musica. Da un lato, Murari e Tollini riusciranno ad esprimersi al meglio potendo sviluppare la propria visione musicale, in cui la NWOBHM ricopre un ruolo importante, fondando prima i Sacrilege e poi gli Epitaph, due nomi che gli amanti dell’heavy-doom, cupo ed esoterico, non possono non conoscere. Dall’altro, permette a Roberto Morbioli di aver totale libertà espressiva e di poter percorrere senza freni quel sentiero solamente iniziato in “Land Of Mystery”.
L’enigmatico polistrumentista, avvalendosi del prezioso aiuto del chitarrista David McCallister e di una drum machine, compone nuovo materiale e registra un nuovo disco nel 1989 che, causa un improvviso scioglimento della band, verrà pubblicato solo nel 2000 grazie ad un iniziativa dell’Andromeda Relics, ora ristampato dalla Jolly Roger Records. Il disco in questione si intitola “Living Mask” ed è la perfetta trasposizione in musica del pensiero artistico di Morbioli. Un lavoro di difficile catalogazione dovuto ad un approccio atmosferico in cui vengon mescolati elementi dark, psychedelic rock, prog settantiano e sabbattiani. L’obiettivo è ipnotizzare l’ascoltatore e permettergli di iniziare un viaggio verso gli antri più profondi dell’animo umano, il tutto attraverso immagini spettrali ed atmosfere gotiche-orrorifiche. La title track, ad esempio, nella mente di chi sta scrivendo queste righe, richiama le atmosfere “respirate” ne “Il Golem” di Gustav Meyrink grazie all’oscuro organo iniziale ed alle spettrali partiture di basso e tastiere. La voce di Morbioli risulta distante, quasi una sorta d’eco in una città avvolta da oscurità e nebbia.
L’ascolto di “Living Mask” non è sicuramente tra i più facili ed anzi, il momento ed il modo giusto per l’ascolto, vanno creati ad arte. Per poterlo apprezzare e poter iniziare il viaggio verso la conoscenza degli abissi dell’animo umano, bisogna trovarsi in una stanza con luce fioca, magari distesi, e fare play. Il disco parte con lo spettrale organo di “Return Of Gothic Spirit” a cui presto si aggiunge l’echeggiante salmodiare di Morbioli. La canzone, nei suoi oltre undici minuti, ha un evoluzione coinvolgente ed ipnotica in cui a farla da padrone – una costante che ritroveremo in tutta la durata del disco – sono le atmosferiche ed oscure tastiere e le linee di basso. La chitarra riesce ad esser incisiva sia nei suoi momenti più pesanti, di ispirazione settantiana, sia nei frangenti più soft grazie a degli arpeggi carichi di delay. La canzone, nel finale, evolve in una parte strumentale in cui le visioni gotiche-orrorifiche si impossessano della nostra mente, per poi chiudersi in un passaggio che sa di soundtrack à la Goblin dei bei tempi. Undici minuti che scorrono via in un lampo, introducendoci il disco e permettendoci di iniziare un cammino, un viaggio iniziatico fatto di luci e ombre della durata di cinquantacinque minuti, articolato in sei fondamentali capitoli legati indissolubilmente l’uno all’altro.
Un disco, “Living Mask”, che va ascoltato dall’inizio alla fine, un disco capace di trasmettere sensazioni forti, vive, la cui produzione, rimasterizzata per l’occasione, dona ulteriore mistero e attrattiva ad un componimento già intriso di fascino spettrale. La decisione di mettere in copertina l’opera di Danilo Capua, “Il Vetro Di Leng”, ispirata da H.P. Lovecraft, è una scelta quantomai azzeccata e ben si sposa al concept del disco. Un disco forse non per tutti, un disco che, rispetto al più metallico “Land Of Mystery”, risulta più adatto alle corde di coloro che amano la sperimentazione (ovviamente datata 1989).
Ma forse sono proprio le parole di Morbioli a descrivere al meglio “Living Mask”, le canzoni, le atmosfere che lo compongono. Parole che il poliedrico musicista veronese ha utilizzato, in quella storica intervista citata in apertura:
“… L’esplorazione del subconscio non contempla alcun cedimento a formule facilmente informali (droghe o fumi), ma si affida bensì a processi di sublimazione mentale che mettono alla prova la capacità di concentrazione ed isolamento e che aumentano le capacità espressive del proprio animo. Sensitività, queste, che mi permettono la contemplazione di fenomeni metafisici che viceversa rifuggono dall’attenzione di un umanoide comune, privo di visioni intellettuali. Black Hole ricerca quindi gli strali più oscuri della nostra esistenza, ricca di equivoci, di aberrazioni, d’incomprensione e vuole manifestarne i lati spettrali, magari concepiti, di un ipotizzato, ma non per questo surreale, pianeta esistenziale post-terreno, scevro dall’inganno e librante nella spontanea espressione della propria personalità. Spontanea, di conseguenza, è l’espressione sonora di tutte le proibizioni, le angosce, gli stati d’inquietudine, e non ultima la solitudine. Nella notte la vita si rispecchia nell’ombra della nostra strada, che ne fornisce il viatico più obbiettivante plausibile, magari vedendosi proiettati in un pianeta senza tempo in lotta per la ricerca dell’equilibrio triangolare , espresso dal mistico violetto in termini cromatici, in un clima ancestrale.”
Marco “Into Eternity” Donè