Recensione: Lobotimized
Tra le Thrash band che hanno centrato il bersaglio negli anni ’80 ci sono i danesi Artillery, presenti sul mercato ancora oggi nonostante la loro storia abbia subito alcune interruzioni.
La prima avvenne, causa tensioni interne nonostante il buon successo, tra il 1991 ed il 1998.
Intanto, nel 1988, il loro chitarrista, Michael Stutzer, partecipò ad un progetto parallelo: i Missing Link, al quale presto si aggiunge il fratello Morten, pure lui negli Artillery.
La band incise due demo, ‘Yet to born’ nel 1991 e ‘Non Fiction’ nel 1992 e il primo album, dal titolo ‘When the Door Is Closed’ nel 1994. Dopodiché al combo si aggiunse un terzo Artillery, il batterista Sven Olsen (deceduto nel 2013 dopo lunga malattia) con il quale incise l’EP ‘Merry X-mas everybody’ nel 1995 e l’album ‘Lobotomized’ nel 1997. Poi il combo si sciolse, guarda caso praticamente in concomitanza con la reunion degli Artillery.
Ora, a distanza di più di venti anni, la Vic Records decide di rispolverare ‘Lobotomized’, album che, nonostante il tempo trascorso, suona terribilmente attuale.
Tornando al 1997, l’epoca non era proprio la migliore per il Thrash Metal, preferendo i fans altri generi, magari da lui derivati (Alternative Metal, NU Metal ecc.) , ma essenzialmente privi di quella carica istintiva e travolgente che ne fece il genere di punta negli anni ’80.
In quel periodo storico i Missing Link trovarono il coraggio di incidere un album controcorrente, denso di una carica Heavy Metal ‘old style’ ulteriormente rafforzata dalle linee aggressive del Thrash vecchia scuola. Un qualcosa che non si sentiva da tempo: ‘Lobotomized’, sapendo di Judas Priest ed Accept ma anche di Exodus e Testament, era uno degli album che preparava la strada per il ritorno alla grande del Thrash, risultato conseguito circa tre anni dopo.
‘Lobotomized’ guardava al futuro. I musicisti avevano visto giusto, trovando sonorità e stili che oggi sono di nuovo in auge, e anche se l’album ha delle sbavature, soprattutto per quel che riguarda l’uso della voce di René Struch, abbastanza terribile, e per il sound, che a volte è un po’ dispersivo, non vuol dire che sia da accantonare.
Il tentativo della VIC di restituire il giusto lustro ai Missing Link è più che corretto, visto che la quantità di lavoro prodotta in ambito Thrash da band vecchie e nuove dal 2000 ad oggi è talmente tanto che rischia di far entrare nel dimenticatoio album del genere, che invece meritano, per quanto non perfetti, di essere ricordati.
La versione nuova riprende nove tracce su dieci, riproposte nello stesso ordine della versione originale, escludendo l’ultima ‘The River’s Edge’.
Si parte con la Title-Track ‘Lobotomized’, che corre a perdifiato lungo la linea di confine tra un potente Heavy Metal ed un ruvido Thrash, con cambi di tempo tra velocità e cadenza ed un buon assolo sorretto da un ritmo pestato.
Segue ‘House of Fear’, il pezzo debole del disco, che sa di poco: una scivolata su una lastra d’acciaio. A parere del sottoscritto direttamente da saltare.
Ma l’album si riprende subito con ‘Furious’, con un riff d’altri tempi è un buon Thash ‘n’ Roll con un furioso refrain. Il pezzo non è veloce ma duro, con un assolo articolato con vari scambi tra le due asce e un cambio di tempo quasi psichedelico che s’indurisce per poi riprendere velocità.
‘Time Bomb’ è una semi – ballad, con un arpeggio romantico sostenuto da un esaltante basso; Il brano è uno scambio tra strofe lente unite da un assolo ed altre più dure e veloci.
Poi ritorna l’Heavy Metal con ‘All Mine’, con un grande lavoro di basso e batteria ed un refrain strafottente.
‘Troublemakers Benefit’ si rifà al Dark Sound di matrice Black Sabbath, cupa e molto cadenzata con assoli molto articolati ed un arpeggio oscuro.
La successiva ‘Devil or God’ è proprio come il titolo: pezzi acustici che si scambiano con picchi di potenza improvvisa quasi a scegliere da che parte stare. Anche gli assoli si muovono sullo stesso binario, essendo alcuni veloci ed altri più lenti.
‘Persistance of Desire’ è un pezzo Thrash senza fronzoli che inchioda, mentre l’ultima ‘Time to Say Goodbye’ è una ballata con un assolo acustico molto emozionante.
Sulla qualità dei musicisti nulla da dire, a parte la voce, come purtroppo già detto. Grandi sezioni ritmiche, chitarre robuste, potenza ed incisività ma anche delicatezza e soprattutto gran varietà nel songwriting.
Riassumendo, ristampa dall’alto valore storico e belle canzoni. Cosa si può volere di più: magari una reunion ed un nuovo album? Chissà … per ora accontentiamoci.