Recensione: Lost in Forever
Il caso “Beyond the Black” meriterebbe un approfondimento, signor Holmes. Stiamo parlando di una giovanissima female-fronted symphonic band tedesca, formatasi nel 2014 a Mannheim (Baden-Württemberg), che ha debuttato nello stesso anno nella prestigiosa cornice del Wacken Open Air, all’Headbanger Stage. Il tutto senza alcun disco all’attivo, con la diciannovenne cantante Jennifer Haben impegnata a conquistare un pubblico completamente digiuno della loro proposta musicale. A giudicare dalle recenti classifiche, sembra aver vinto lei. Nell’ultima parte del 2014 (novembre e dicembre) la band intraprende un tour nel Regno Unito di spalla ai leggendari Saxon, e solo nel febbraio dell’anno successivo dà finalmente alle stampe il debut-album: Songs of Love and Death (2015), prodotto dal connazionale Sascha Paeth (Heaven’s Gate, Avantasia): un vero mostro mitologico del power metal teutonico, sia in veste di chitarrista che come produttore. Come se non bastasse, il disco non è pubblicato da una label sconosciuta stile Trinciapolli Records, bensì da Airforce1 Records, una costola della prestigiosa major Universal – che già aveva prodotto la minorenne Jennifer ai tempi della teenage-pop band Saphir. Il symphonic metal ultramelodico dei tedeschi viene poi promosso con un video complesso ed articolato del brano “In the Shadows”, in cui le immagini dei ragazzi alle prese coi propri strumenti si alternano a quelle del film “Northmen: A Viking Saga” (Claudio Fäh, 2014; “I Vichinghi” in Italia), in quanto parte della OST ufficiale, assieme ad una certa “Deceiver of the Gods” degli Amon Amarth. In questo inspiegabile e controverso dispiegamento di forze e capitali ed improbabili legami tra pop e metallo pesante (roba che succede solo in Deutschland), cosa dire della proposta musicale della band? Possiamo considerarli come i soliti raccomandati costruiti ad hoc da una label oppure i ragazzi avranno qualcosa da dire?
Devo ammettere che ai tempi del debut, almeno da parte mia, la sorpresa fu decisamente positiva: pur restando nell’ambito del rock/metal più commerciale (ultimi Within Temptation, Delain, Amaranthe e soci), il disco riusciva ad evocare atmosfere nordiche ed epiche, veicolata dalla vocina pop di Jennifer e con ottimi inserti della chitarra solista, cori, orchestra e quant’altro, per quanto il vero tratto distintivo fosse la produzione estremamente pulita, forse poco ruvida e rocciosa ma al contempo forzatamente aulica ed eterea, tanto far utilizzare la metafora di “Dulcinea” al nostro Marco Giono in sede di recensione.
La band partecipa prevedibilmente di nuovo al Wacken Open Air del 2015 per poi suonare in alcune date in giro per la Germania, poi in tour di spalla agli Scorpions (interrotto a metà per problemi di salute di Klaus Meine) ed eccola ricomparire quest’anno con il secondo disco: Lost in Forever… e di nuovo l’annuncio per il Wacken 2016, per il terzo anno consecutivo. Fatto assai curioso per una band semi-sconosciuta nella vicina Italia, che sembra non voler proprio uscire dalle lande teutoniche, orgogliosamente legata anche nella comunicazione e nella promozione alla lingua di Goethe.
Mentre cerchiamo di farcene una ragione, dopo aver analizzato il singolare caso discografico, ci mettiamo all’ascolto di Lost in Forever. Un album che segue senza troppe remore il discorso già iniziato con il lavoro precedente. Chitarre ritmiche abbastanza sottotono per lasciare spazio a tastiere, cori e orchestra, produzione minuziosa, ritornelli easy-listening e qualche colata metallica qua e là, dal growl (un po’ povero) che compare a metà ritornello della titletrack “Lost in Forever” alla doppia cassa, ai soliti solos tecnici e veloci di tipica matrice power coi classici sweep, legato e tapping.
Unico ospite del platter, lo svedese Rick Altzi (Masterplan) nel secondo brano, la power-ballad “Beautiful Lies”, in una song che di nuovo riesce ad evocare le atmosfere epiche di terre lontane in maniera decisamente cinematografica. Il disco procede con un oculato saliscendi di mood, dalla più moderna e commerciale “Written in Blood” alla dolce ballad “Against the World” che ricorda da vicino gli Within Temptation.
Di nuovo in un mondo celtico prepotentemente cinematografico con “Beyond the Mirror” ed il suo incessante riff di violino. “Halo of the Dark” ci presenta un crescendo dal romantico con voce e chitarra fino al solo su doppia cassa in carica. Bisogna però attendere fino a “Dies Irae” per un pezzo davvero tirato, con cori stile Rhapsody ed una base ritmica un po’ più martellante di basso e batteria. “Forget My Name” richiama di nuovo magna voce la band di Sharon den Adel, anche se i tedeschi riescono con grande abilità a mescolare le carte in tavola mostrando una certa personalità, aggiungendo ad un brano altrimenti solo zucchero, melodia e “oooh” vari cambi di tempo, un assolo acustico ed anche qui il growl che compare nella seconda parte del ritornello. Il disco procede giocando e cambiando l’ordine dei già citati elementi stilistici, dalla ritmata “Burning in Flames” all’arrembante “Nevermore”, fino all’apice di “Shine and Shade”, in cui l’alchimia è finalmente completa, la voce maschile trova il suo ruolo nella strofa, la componente celtica accompagna il riff (ecco la chitarra ritmica!) ed il ritornello super-catchy arriva dritto al bersaglio come la freccia scoccata dal Guillaume Tell.
L’ascolto termina tra inferno e paradiso, con l’aggressiva “Heaven & Hell” che per la prima volta manca clamorosamente il ritornello e con la ballad malinconica chitarra e voce “Love’s a Burden”. Tredici brani. Sessanta minuti scarsi di musica.
I Beyond the Black sono una realtà da tenere d’occhio con la dovuta attenzione, una giovanissima band ormai pronta a varcare i confini entro i quali sembra essere stranamente reclusa; un gruppo la cui musica melodica ed accessibile sembra destinata da un lato agli ascolti più tranquilli dei metallari open-minded in cerca di uno spazio di relax, e dall’altro a alle grandi masse tout court. Avanti pop…olo! Pur nell’assordante silenzio del mercato italiano, infatti, Lost in Forever ha raggiunto la posizione n. 4 nella classifica di vendita tedesca, la n. 21 in Austria e la n. 28 in Svizzera. Va in tutta onestà riconosciuto come in quest’album venga prevedibilmente a mancare l’effetto sorpresa del debut di due anni fa, eppure anche l’ultimo lavoro è forte di quel sound fresco e moderno che riesce a smarcarsi dalla nutrita pletora di female-fronted band sinfoniche grazie alla produzione sopraffina e ad un songwriting personale e ben costruito: un disco si lascia ascoltare e riascoltare con tutta la piacevolezza delle melodie interpretate da Jennifer, in una singolare alternanza di sinfonie, ballate ed atmosfere antiche calate in un contesto cinematografico, epico e moderno.
Luca “Montsteen” Montini