Recensione: Lost In Paradise

Di Stefano Burini - 16 Aprile 2016 - 0:01
Lost In Paradise
Band: Twelve
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2015
Nazione:
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65

Dei pesaresi Twelve avevamo già parlato ai tempi dell’uscita del mini-che-più-mini-non-si-può “Ten Minutes Songs” e, pur in presenza di una buona base di partenza dal punto di vista tecnico e della conoscenza della materia, non ci eravamo potuti esimere dal constatare come l’eccessiva derivatività di riff, sonorità e melodie fosse, all’epoca il loro punto debole.

A cavallo tra 2015 e 2016 Giacomo Magi e compagnia ci riprovano con un nuovo EP dal titolo “Lost In Paradise” e va detto che i miglioramenti si sentono tutti. Le canzoni sono più frizzanti rispetto all’esordio, beneficiano di ritornelli più incisivi e di un guitar work vivace, in grado di incorporare influenze provenienti dai 70’s e dagli 80’s in tutt’uno non particolarmente originale ma ad ogni modo efficace.

Le citazioni di molti gruppi storici di quegli sono in effetti evidenti ma non per questo automaticamente sgradite. Laddove infatti l’iniziale “Free Woman” strizza l’occhio ai Deep Purple nel riffing ma riesce globalmente a convincere grazie ad una melodia riuscita, la pur gradevole “Love Gun” ammicca in maniera forse un po’ troppo palese alla mitica “Rain” dei The Cult. Più particolare risulta al contrario la successiva “NYC”, caratterizzata da un incipit volutamente in sordina contrapposto ad un crescendo ottimamente orchestrato, elementi che la rendono con tutta probabilità il pezzo più interessante dell’album. 

Chiudono il cerchio l’opaca “Apnea”, di per sé non disprezzabile ma priva di quei guizzi a livello vocale o chitarristico che avevano dato quel “quid” in più alle precedenti tracce, e la più scorrevole “Sick Doll”, un buon esempio di hard rock dall’influenze glam/stradaiole in grado di farsi voler bene.

I Twelve, rispetto all’esordio, hanno compiuto notevoli passi in avanti in termini di sicurezza e di capacità di confezionare un prodotto più professionale (l’intero lavoro appare più curato e centrato, sia dal punto di vista grafico sia dal punto di vista sonoro e dei contenuti) ma peccano ancora dal punto di vista della personalità. Gli echi delle grandi band del passato sono, come detto, evidenti (e per nulla nascosti) ma viste le potenzialità messe in mostra dai cinque pesaresi l’auspicio è quello di riuscire al prossimo giro a fare tesoro dell’esperienza e spiccare finalmente il volo.

Stefano Burini

 

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