Recensione: Lost Isles

Di Daniele D'Adamo - 22 Marzo 2015 - 17:48
Lost Isles
Etichetta:
Genere: Metalcore 
Anno: 2015
Nazione:
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60

Nella miriade di sottogeneri che infestano il metal moderno, si può quasi affermare che ce ne sia uno per band, spicca, in questi ultimi anni, il cosiddetto ‘djent’. Un termine breve e secco, senza fronzoli, per dare un nome proprio al ‘metalcore tecnico’.

Quasi un’antitesi, questa, giacché fra tutte le derivazioni metalliche, il metalcore è quello che presenta gli elementi tipici d’immediatezza per piacere subito, al primo colpo, magari con una strizzata d’occhio al pubblico degli adolescenti; teoricamente meno voglioso di altri di complicare la musica.   

Invece, con il djent il metalcore raggiunge vette di tecnicismi elevatissimi, un po’ come accade per il technical death metal, cercando con ciò di fornire un albero genealogico popolato da qualche parente nobile da affiancare alla… plebe che usufruisce del metalcore puro e semplice.

E, questo, parrebbe essere proprio lo spirito degli inglesi Oceans Ate Alaska, giovane ensemble di Birmingham che, dopo due EP (“Taming Lions”, 2012; “Into The Deep”, 2012), giunge al traguardo del full-length, intitolato “Lost Isles”. Un full-length che racchiude in sé tutte le considerazioni più su riportate, seppur appaia ancora evidente una certa indecisione se prendere la strada della melodia più diretta (“Blood Brothers”, “Vultures And Sharks”) o quella dell’arzigogolo a tutti costi (“Part Of Something”). Trattandosi “Lost Isles” di un’Opera Prima è comprensibile che nella mente dei Nostri non sia ancora perfettamente chiaro ‘cosa fare nella vita’.

Per andare loro in aiuto si può osservare che, sì, la preparazione tecnica è semplicemente fantastica: dall’esecuzione alla registrazione, difatti, il produttivo è assolutamente privo di difetti. Con possibilità di godere appieno della vertigine provocata dalle astruse scale chitarristiche e/o della compressione delle micidiali decelerazioni dei breakdown. Non dimenticandosi delle linee vocali, da enciclopedia per il genere. Tutto ciò, tuttavia, pur raggiungendo dei livelli di difficoltà notevole, è – né più, né meno – quello che riescono a realizzare altri ensemble dello stesso tipo. Con il risultato pratico di dare alla luce anzi alle stampe un sound perfettamente cristallino ma ben poco originale. Dominato da cliché in voga, ormai, da qualche anno di troppo.

Gli Oceans Ate Alaska, al contrario, riescono a bucare l’etere quando inseriscono inserti melodici di pregio raffinato, come in “Mirage” e, soprattutto, come nella già menzionata “Blood Brothers”, ove l’atmosfera perde l’artificiosità caratteristica della composizione matematica per ammantarsi di struggente malinconia. Sfortunatamente i momenti in cui tutto ciò avviene sono relativamente pochi, diluiti in dosi appena sufficienti nelle tredici song del platter.

Come si può ben immaginare si tratta di un gran peccato, poiché “Lost Isles” lascia intravedere delle possibilità armoniche, da parte degli Oceans Ate Alaska, in grado di dar vita a canzoni dal grande livello tecnico nonché artistico. La smania di smanettare esageratamente con gli strumenti a tutto tondo, però, soffoca un talento di scrittura al momento sì poco leggibile ma senz’altro intuibile.

Che, se sviluppato con maggiore coraggio, innalzerebbe, e di parecchio, l’asticella che il quintetto del West Midlands sarebbe in grado di saltare.  

Daniele “dani66” D’Adamo

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