Recensione: Love Exchange Failure
Difficilissimo approcciarsi a “Love Exchange Failure”, secondo nato in casa White Ward. Si potrebbe partire dicendo che il gruppo viene da Odessa, città involontariamente famosissima tra gli italiani per essere stata il teatro dell’ammutinamento della corazzata Potëmkin (e nella città venne girato il film). Si potrebbe notare che i White Ward sono ucraini e notare come da questa terra martoriata, per lungo tempo nota in ambito metal solo grazie ai Drudkh, ultimamente stanno sbucando tante band dinamiche e innovative. E i White Ward sono tra esse.
Si potrebbe anche notare il netto cambio di immagine a livello di artwork, tra “Love Exchange Failure” e il primo nato dei nostri, “Futility Report”: via il logo tipicamente black in favore di una scritta in semplici lettere maiuscole, via la tipica copertina in bianco e nero in favore della scialba foto di una periferia cittadina sotto un crepuscolo sconsolatamente blu.
Ci sarebbe poi molto da dire sul fatto che questo album susciti emozioni contrastanti a livello quasi paradossale e non mancheremo di farlo, in chiusura. Ma la vera cosa da dire, l’unica essenziale verità che rende così difficile capire da dove cominciare la disamina di questo disco può essere riassunta nella lapidaria constatazione di seguito riportata:
Qua dentro ci sta un fottio di roba!
Non c’è modo di girarci intorno, nell’ora e passa di questo platter si assiste ad un incredibile accostamento di stili, generi, cambi di ritmo… di tutto e di più. Con quello che c’è in “Love Exchange Failure” certe band medie di avantgarde potrebbero campare per tre uscite, altre band non riuscirebbero a sfruttare le idee contenute qui dentro neppure in tutta una carriera.
Pure noi potremmo scrivere due recensioni, una per le prime tre composizioni ed una per le ultime tre, con la strumentale “Shelter” a fare da spartiacque. Per chi non li conosce, ad ogni modo, i White Ward nel loro debut di cui sopra, si sono messi in mostra per un’originale commistione di post black metal e jazz, nonché per avere realizzato uno dei grandi sogni di chi scrive: dopo un fiorire di gruppi estremi che si danno una punta elitista assumendo un violinista, ne abbiamo finalmente uno che fa un massiccio uso del sax.
Quanto detto è confermato in pieno ed esponenzializzato vertiginosamente in “Love Exchange Failure”. Ci troviamo innanzi a introduzioni languide, che ben si addicono alla desolazione suburbana della copertina, spazzate brutalmente via in un battito di ciglia da sfuriate di black primordiale violentissimo. Successivamente si raggiunge l’equilibrio, il sound ricorda in qualche modo i The Ocean, magari quelli di “Precambrian” e di “Pelagial”, con in aggiunta il sopracitato sax, perfettamente a suo agio nella giostra del black. Di nuovo calma, con delle pennellate al pianoforte. Di nuovo furia improvvisa e di nuovo rapidi saliscendi di black, prima furibondo, poi ragionato. Queste sono, in sostanza le prime tre mastodontiche composizioni del disco.
Figata, direte voi. Figata, confermo.
Ma aggiungo che vi è uno strano retrogusto, qualcosa non va, e per la maggiore si tratta dei cambi di ritmo. La cosa è fastidiosa al primo ascolto, successivamente cala ma non si estingue del tutto. È come se i White Ward avessero deciso di passare in un nano secondo dalla languida mestizia all’atroce brutalità non tanto perché se lo sentissero ma perché così vuole il genere, perché così vuole il pubblico (?), così sembriamo ancora più brutti sporchi e cattivi. Di fatto però un climax ragionato o anche una conservazione dell’atmosfera dell’intro nel passaggio alla violenza (vedi anche solo “Painters of the tempest” dei Ne obliviscaris per dirne una), avrebbe dato a queste composizioni tutt’altro livello. E non si fraintenda, il livello già così è altissimo.
Il punto è che nella seconda parte del disco (gli ultimi tre pezzi), la band dimostra di saperlo fare benissimo.
Passata “Shelter” ci attende “No cure for pain”, altro moloch di 12 minuti costruito sulla falsa riga dei primi tre episodi. Lo stacco tra intro e sfuriata c’è, ma è più accettabile, soprattutto la parte violenta è dominata da riff tanto drammatici quanto orecchiabili. Dopodiché si aggiunge ulteriore carne al fuoco (ce ne fosse bisogno) e disegna scenari di gloriosissima tristezza gotica. Ed è in questo scenario che spuntano, per la prima volta, delle clean vocals maschili lugubri e maestose che, se non stai attento, ti viene da gridare alla resurrezione dei Tristania di “World of Glass”.
Ecco, se con “No cure for pain” la band trova quella che può essere una quadratura del cerchio non c’è che una cosa da fare: stravolgere brutalmente le carte in tavola ancora una volta. A seguire troviamo infatti “Surfaces and Depths”, un pezzo di una bellezza senza senso che, se da un lato si inserisce a meraviglia nel microcosmo dell’album, dall’altro potrebbe benissimo essere uscito da “Mezzanine” dei Massive Attack. Un pezzo che potremmo definire, senza timore di smentite, una summa degli anni d’oro del trip hop, con clean vocals femminili che trasudano malessere da un lato e l’onnipresente sax a caricare il tutto di un sordido languore. E si giunge alla conclusiva “Uncanny delusions”, altri 12 minuti che costituiscono la sintesi di “Surfaces and Depths” e “No Cure for Pain”. Si parte con le atmosfere sordide e malate, certo, ma qui la svolta è a livello compositivo. Non ci sono break, ci sono sfumature, la tensione cresce e giungere all’esplosione della violenza è graduale. Qua si fila a meraviglia.
E finito il disco ci troviamo qui con le emozioni contrastanti. Ci troviamo per la prima volta a dare un voto assai alto e ad avere l’amaro in bocca perché si poteva andare molto meglio, e parecchio. I White Ward in questi due anni si sono evoluti, ma non sono ancora giunti a completa maturazione – e non è detto che ci arrivino, perché gestire così tante idee non è da tutti. Camminano sicuri nella palude che separa l’avant black dal progressive estremo ma l’idea è che ci sarebbe bisogno di un’ulteriore virata verso quest’ultimo. Ci hanno dato un disco straordinario a cui però manca un qualcosa.
Rivelazione dell’anno? Senza ombra di dubbio. Disco dell’anno? Beh, forse. Forse esageriamo.
Eppure… Ci troviamo innanzi a una band dalle potenzialità pressoché sterminate, ancora giovane e dunque sterminatamente promettente. Questi non è che possono fare strada, possono proprio scrivere la storia del genere estremo nei i prossimi dieci anni. Facciamo il tifo.