Recensione: Machine Head
Recensione di Tommy
Sicuramente l’album più famoso dei Deep Purple (con Made In Japan) e quello che contiene le canzoni più consociute.
I Purple sono formati dal grandissimo cantante Ian Gillan dotato di una notevole estensione vocale (ascoltatevi Child in Time dall’album In Rock), dal estroso e bravissimo chitarrista Ritchie Blackmore, dal virtuoso pianista e organista Jon Lord e dal tandem ritmico costituito dal grande bassista Roger Glover e dal velocissimo e devastante batterista Ian Paice.
La band lascia un po’ da parte la potenza di In Rock e la voglia di sperimentare di Fireball per concentrare tutti gli sforzi sulla stesura di grandi pezzi. E questo obbiettivo, lasciatemelo dire, viene centrato in pieno.
Praticamente ogni pezzo è un classico e citare le canzoni migliori è quasi impossibile perchè sono tutte entrate nella storia.
L’album apre alla grande con la potente Highway Star che diverrà poi la opener dei loro spettacolari concerti. Grandi assoli di Blackmore e di Lord per un pezzo che diventerà un classicissimo.
Si prosegue con l’ottima Maybe I’m a Leo (coverizzata anche da Paul Gilbert) che ci porta nella terrificante cavalcata di Pictures of Home dove ogni membro del gruppo da prova delle sue ottime capacità (peccato che non l’abbiano mai suonata live…), in particolare sottolineo gli ottimi assoli di chitarra e tastiera, quello di basso ed il terremotante intro di batteria (eseguito con UNA cassa).
Never Before è un buon pezzo con un intro un po’ “funky”.
La track seguente non ha neanche bisogno di presentazioni, la famosissima Smoke on the Water, chi non l’ha mai sentita. Da notare che live acquista un fascino ancor maggiore, e pensare che loro non la consideravano come un pezzo speciale e difatti all’inizio non la facevano live…
L’album prosegue con Lazy un lungo simil-boogie in cui spiccano l’armonica di Gillan e (quest’altra caratteristica è sopprattutto live) l’inferno sonoro che Lord produrrà coi suoi Hammond e sintetizzatori oppurtunamente modificati da lui stessi in maniera quasi “Hendrixiana”.
L’ultima song è Space Truckin’ che nei concerti non durerà mai meno di un quarto d’ora, piena di folli improvvisazioni da parte del duo solistico Blackmore/Lord.
Questo è Machine Head, un disco che ha fatto storia, un disco da avere a tutti i costi.