Recensione: Maiden Voyage

Di Riccardo Angelini - 13 Novembre 2005 - 0:00
Maiden Voyage
Band: Flagship
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 2005
Nazione:
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80

Nati nel 2002 dalle menti di Linus Kase e Christian Rivel, già tastiera e voce degli svedesi Narnia, i Flagship abbandonano alle loro spalle i lidi natii del power metal neoclassico per approdare con il loro debutto su rive oggi troppo spesso dimenticate. La loro proposta infatti può essere collocata nell’ambito di un genere, il pomp rock, le cui radici, affondate prevalentemente nella seconda metà degli anni settanta, sembrano oggi non dare più frutti graditi alle nuove generazioni. Ma sono proprio quelle le radici di cui la band scandinava intende dimostrare la vitalità, integrandole con copiose influenze AOR (e non sono certo i primi), fortificandole col patrimonio progressivo nazionale e calcando la mano sul frangente sinfonico – anche in virtù di un uso reiterato di viole e violini – oltre che su quello classico.

Così, il riarrangiamento di una canzone come Ground Zero, figlia dalla penna solista di Kerry Livgren, suona come una vera e propria dichiarazione d’intenti, sigillata in segno d’approvazione da un assolo dello storico Kansas in persona. E gli intenti, non c’è bisogno di dirlo, trovano ampio riscontro nei fatti.
In una Heart Is the Center che pare ben lieta di pagare consapevole dazio tanto agli stessi Kansas per ciò che concerne la struttura, quanto agli Styx più pomposi (quelli di The Grand Illusion, per intenderci) nelle soluzioni armoniche, sono già presenti in nuce i tratti fondamentali della ricetta dei Flagship: melodie avvolgenti e pompose, arrangiamenti raffinati e strutture ben articolate. Ciliegina sulla torta il giro di piano che poco prima del quarto minuto riprende il tema principale e avvia un turbine di cori d’altri tempi sui quali si incastra un solo di chitarra veramente azzeccato. Non è da meno la magniloquente You Are, che ripropone sonorità fortemente pomp rock arricchite da arrangiamenti progressivi e sinfonie magniloquenti. Tastiere e soprattutto voce in evidenza: la timbrica di Rivel non si distinguerà forse per potenza o per estensione, ma il suo stile aggraziato è ampiamente sufficiente per riscuotere ampi consensi. Buona la padronanza del falsetto, su cui il cantante scandinavo insiste, con risultati positivi, nel passionale refrain Windy City, brano malinconico e d’atmosfera, il cui titolo era stato scelto in un primo momento come monicker dalla band.
Ma probabilmente l’episodio di maggior lustro di tutto l’album è quello che si trova in terza posizione, a titolo The Throne, e non tanto – meglio: non solo – per un chorus a un tempo maestoso e suadente, quanto per i riff solidi e trascinanti, per il brillante accompagnamento pianistico, per i cori solenni che sostengono il bridge, per il magnetico solo di tastiera mediano, per la conclusione in crescendo di chiara ispirazione classica.
Forse proprio perché preceduta da tanta magnificenza, pare lievemente sottotono la più tradizionale Hold on to Your Dream, in cui si riconoscono massicce influenze Queen nelle armonie della chitarra e, soprattutto, nelle linee vocali della strofa e del ponte. Influenze AOR invece nel refrain diretto e cantabile – forse troppo – mentre il break melodico – a dire il vero ottimo – che spezza in due la canzone va a pescare a piene mani nella tradizione scandinava, di nuovo nella musica classica e, naturalmente, nel già apprezzato pomp di marca Styx.
A conti fatti, due sono i difetti fondamentali dell’album, entrambi tutto sommato veniali. Il primo risiede nell’aspetto quantitativo del materiale musicale proposto: se si toglie la cover di Ground Zero, il minutaggio delle composizioni a firma Flagship supera di poco i trentacinque primi. Un po’ poco, in paragone agli standard odierni. La seconda carenza invece può essere individuata nel profilo delle liriche, a tratti fin troppo stucchevoli e in generale eccessivamente banali. Musica di questo genere e livello richiede testi all’altezza, e anche da questo punto di vista è possibile e necessario compiere progressi.

Ma forse uno dei due difetti citati, la durata relativamente esigua, altro non fa se non rievocare ancor più da vicino il sentore di quegli anni in cui un certo tipo di rock raggiungeva gli apici della propria espressione artistica, anni in cui un disco durava in media poco più di una mezz’oretta, anni che hanno visto la nascita e lo sviluppo di stili destinati a segnare la storia della musica. Anni che i Flagship paiono determinati a rievocare, lanciando un forte messaggio a chi crede che gli insegnamenti di quell’epoca non possano rivivere anche oggi.

Tracklist:
1. Heart is the Center (7:43)
2. You Are (6:55)
3. The Throne ( 8:45)
4. Hold on to Your Dreams (6:40)
5. Windy City (7:35)
6. Ground Zero (9:39)

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