Recensione: Make it Count
È passato un anno esatto ed è tempo di un nuovo capitolo solista. Forse inatteso, ma graditissimo.
Ronnie Atkins, straordinario frontman dei Pretty Maids, sa purtroppo di avere il tempo a disposizione piuttosto limitato. Inutile ribadire, infatti, la vicenda relativa alle sue condizioni di salute rese precarie da una grave malattia, per ora taciturna, ma capace di creare incognite costanti sul futuro.
Non c’è un minuto da perdere e per stessa ammissione del singer danese, ormai ogni cosa va pensata e fatta con una certa velocità.
Il secondo capitolo discografico in pochi mesi va probabilmente inteso in tal senso. Parimenti, va dato atto al buon Atkins d’esser sempre stato una fucina d’idee inesauribili anche in periodi di tranquillità, quando con la band madre conservava una inossidabile costanza nelle pubblicazioni.
“Make it Count”, proprio perché vicinissimo al suo predecessore “One Shot”, ne risulta pertanto come una sorta di emanazione. Un proseguimento naturale che raccoglie esattamente tutto quanto di buono realizzato lo scorso anno, evidenziandone nella sostanza i medesimi caratteri e qualità.
Il tratto tipico ascrivibile allo stile di Atkins e già appartenuto ai Pretty Maids è molto ben evidente.
Grande melodia, struttura portante immediata, cori istantanei ed un songwriting equidistante tra AOR, Hard Rock e Heavy che è più di un marchio di fabbrica consolidato.
Come “One Shot”, anche questa volta il risultato è altrettanto efficace e convincente.
Brani tutti di ottimo livello, orecchiabili, mai dozzinali, prodotti e confezionati in modo impeccabile. Un modus operandi che Atkins conosce a memoria e non tradisce praticamente mai. In grado oltretutto, di garantire una discreta longevità ai brani.
Più li si ascolta, più le melodie sembrano svilupparsi ed offrire buone sensazioni.
Proprio le melodie, tanto care al frontman nordico, sono la base portante di ogni scelta compiuta e la pietra angolare del loro successo. Facile quindi, familiarizzare in modo istantaneo con praticamente l’intera scaletta dell’album il quale, senza intoppi di alcun tipo, scorre e piace nella sua totalità.
Atmosfere che spesso indugiano maggiormente sulle luci dell’AOR ma che sanno anche farsi gagliarde, ricordando il passato ottantiano di album come “Future World” e “Jump the Gun”.
Una auto-ispirazione che riflette una carriera di altissimo profilo e valore, condensandosi in undici brani veloci e dinamici.
Aiuta molto il risultato finale, il complesso di ottimi musicisti che anche in questo caso si è riunito attorno ad Atkins. Come la scorsa volta, manca solo il vecchio compare Ken Hammer per completare una line up che richiama da vicinissimo proprio quella dei Pretty Maids, lasciando così intuire una continuità stilistica che è facile da percepire. Ma che nella preponderanza dei toni più eleganti e morbidi, concede una evidente personalizzazione del disco a favore proprio del singer danese. Non a caso e proprio come per “One Shot”, questo è un album in tutto e per tutto di Ronnie Atkins e non dei Maids.
Per una volta poi, inutile soffermarsi su di un brano specifico. “Make it Count” è un complesso che va assaporato nella sua interezza. Meglio ancora, se assommato direttamente al suo predecessore di cui è discendente diretto e con cui crea un flusso unico e continuo.
Con calma, lasciando crescere le canzoni. Sono tanti i particolari che si rivelano ad ogni passaggio e mostrano, come un sipario che si schiude, la grandissima cura e l’impareggiabile abilità con cui sono stati concepiti e resi reali.
Ecco cosa sono “One Shot” e “Make it Count“. La summa dell’arte di un grande rocker alla quale, come già avvenuto lo scorso anno, ci auguriamo di poter aggiungere, quanto prima, ancora altri capitoli altrettanto brillanti e ricchi di magia.
In barba e spregio a qualsiasi scherzo del destino.