Recensione: Man Made Machine
Una stanza buia arredata con mobilio d’epoca, una donna bendata, uno specchio che ne rivela gli ingranaggi meccanici. Suggestiva ed emblematica la copertina del terzo full-lenght degli svedesi Carptree, duo dal grande potenziale spalleggiato per l’occasione dalla brillante No Future Orchestra. Innagabilmente le vesti musicali della coppia formata da Niclas Flinck (voce) e Carl Westholm (tastiere) presentano rilevanti affinità con le fogge dei Marillion di Fish e – conseguentemente – dei Genesis di Peter Gabriel, oltre che con certe irreali atmosfere pinkfloydiane, qui rielaborate con una sfumatura più fosca e brumosa. Ma l’esteriorità aderente alla tradizione cela un’anima finemente elaborata del tutto in grado di avanzare al passo con i tempi, forte di quella freschezza di idee indispensabile per chiunque voglia uscire dalla dimensione di tributo da nostalgici.
Non lasciatevi tuttavia fuorviare eccessivamente dal titolo, perché questo Man Made Machine si mantiene ben distante da macchinose sperimentazioni futuristiche. Bagliori di modernità si intravedono nella visionaria Born to Something New e nelle convulse ritmiche della conflittuale In the In the Center of an Empty Space, ma i momenti più significativi sono quelli in cui la scena è dominata da un gusto fine e piacevolmente antiquato: un gusto che trova in Tilting the Scales la sua espressione più alta. Qui la musica si avvolge in un caliginoso manto sinfonico, sotto il quale si cela una danza di ombre e sussurri, raffinata e vespertina, eppure mai depressa o deprimente. I sibili sottili e quasi spettrali che avevano generato qualche brivido nella subdola The Weakening Sound sono spazzati via dal turbinio di cori e chitarre che si accompagnano a un chorus ipnotico, incisivo e illuminante, sebbene tutt’altro che solare.
Sprazzi di luce nei passaggi mediani di Sunshine Waters, pur sempre riflessi in umori melanconici che ne smorzano l’intensità, così da addensare quell’atmosfera onirica che già si respirava fin dalle prime note dell’ammaliante opener. Quest’ultima, oltre che per il titolo megalitico, riesce a emergere grazie a un’irresistibile forza magnetica, nascosta da mani esperte sotto una coltre di insospettabili ricami sonnolenti e crepuscolari, apparentemente i meno adatti al compito.
Il maggiore motivo di elogio della formazione scandinava sta proprio nella capacità di valorizzare suoni discreti e mai invadenti, di colpire senza offendere, dipingendo una quadro dalle tinte fredde e spente il cui unico difetto è forse quello di non potere, per sua stessa natura, variare più di tanto le coordinate della navigazione. La qualità del sonoro si mantiene tenacemente a livelli più che buoni, in forza di una nutrita schiera di brani dal notevolissimo spessore, che denotano maturità, capacità espressive e personalità nient’affatto comuni.
Man Made Machine è un album pacato ma penetrante, fatto di atmosfere soffuse, di inquietudine e di sollievo, un punto di stabile equilibrio tra modernità e tradizione, adatto tanto alla vecchia guardia quanto alle nuove leve. Dategli una possibilità, la merita tutta.
Tracklist:
1. Titans clash aggressively to keep an even score (5:29)
2. Sunshine waters (5:48)
3. The weakening sound (6:21)
4. Tilting the scales (6:50)
5. The man you just became (5:15)
6. Man Made Machine (6:18)
7. Burn to something new (5:58)
8. In the centre of an empty space (5:31)
9. The recipe (2:31)
10. This is home (8:17)