Recensione: Manhunt
Attivi dal 2005, i torinesi Manhunt, dopo due EP ed un singolo, nel 2012 si trovano ad affrontare un vero e proprio scossone interno causato dall’abbandono di Matteo Candeliere, fondatore della band assieme a Massimo Ventura. Trovato il sostituto in Alessandro Gagliardi, l’ensemble torinese prosegue la propria strada arrivando all’omonimo debut album che ci troviamo a trattare in queste righe.
Il disco si presenta con un artwork curato. Copertina, backcover e le pagine che compongono il booklet, riportano una serie di dipinti (nel booklet stesso troverete tutte le informazioni in merito) che raffigurano incendi a chiese nella Londra del 1600 od immagini che traggono ispirazione da “La porta dell’inferno” di Rodin. Quasi a mettere in chiaro quali siano le tematiche trattate dalla band. Anche dal punto di vista della produzione il disco si presenta bene. Il lavoro svolto ai Crime Records di Torino regala un suono che ben si sposa alla proposta del quintetto torinese, un thrash metal violento in cui spesso fanno capolino elementi melodic death, black e heavy. Non rimane che iniziare a parlare di quello che a noi interessa di più: la musica. Il disco parte con “Satana” il cui inizio è la maledizione lanciata da Asa ne “La Maschera Del Demonio” di Mario Bava. La canzone è un assalto thrash che segue la lezione della scuola tedesca degli anni Ottanta.
Fanno inoltre capolino, in particolare nel ritornello ed in alcuni fraseggi di chitarra, elementi riconducibili ai Watain. Le due asce, Massimo Ventura e Alessandro Gagliardi, mettono in mostra un’ottima solistica che incontreremo in tutta la durata del disco. La canzone si chiude con una melodia accattivante di chiara influenza Arch Enemy. Una traccia d’apertura convincente e, nonostante le molteplici influenze, ben strutturata. Fa comparire un primo sorriso di soddisfazione.
La seconda traccia, “Blast The Sun Away”, ci presenta una band diversa. A dominare sono le influenze scandinave. In più di qualche frangente mi sono tornati alla mente gli svedesi Swordmaster. Se tralasciamo le non proprio entusiasmanti parti in clean vocal, anche la seconda canzone del disco risulta sicuramente positiva ma si discosta dalla prima spiazzando l’ascoltatore.
Si continua con “Worldfire” e ne usciamo nuovamente spiazzati. Un mid tempo thrash che ha poco a che vedere con le due tracce che l’hanno preceduta. La prestazione vocale è tutt’altro che memorabile e “Worldfire” si rivelerà la traccia più scontata delle otto che compongono “Manhunt”. Le prime tre tracce del disco, con il loro attingere da influenze varie, hanno l’effetto di disorientare l’ascoltatore. Purtroppo, questo continuo “scuotimento” tra le varie sfumature del metallo continuerà in tutta la durata del disco, creando l’immagine di una band che tende a mettere tanta carne sul fuoco senza però aver ben chiara in testa la ricetta che vuole seguire. In “The Drones” compaiono addirittura influenze Immortal. Va detto che la band mette in mostra ottime doti tecniche e le canzoni, prese singolarmente, hanno una struttura ineccepibile. Prese nell’insieme del disco però non danno quell’idea di compattezza, continuità e personalità che un full length dovrebbe avere. Per capire il perché basta leggerne i credit. Le canzoni sono state composte in egual misura da Ventura e dall’ex chitarrista Candeliere. Se quest’ultimo ha lasciato la band nel 2012, è facile intuire che le canzoni che compongono “Manhunt” appartengano al passato della band e presentino quindi tutte le sue evoluzioni. E così è facile capire che Ventura, nelle proprie composizioni, strizza maggiormente l’occhio al thrash mentre Candeliere alla scena scandinava.
Il debut album dei Manhunt risulta quindi una sorta di “best of” più che un vero e proprio disco d’esordio. Troviamo canzoni estremamente convincenti come le già citate “Satana”, “Blast The Sun Away” e “The Drones”, a cui vanno sicuramente aggiunte “Gates Of Hell” e “Priestholocaust”. Come dicevamo, al disco, manca però quella compattezza di fondo che solitamente fa rima con personalità, che solitamente definisce quale sia la ricetta, la forma espressiva di una band. Ben venga avere influenze varie ma vanno gestite in maniera più matura.
Se valutiamo la prestazione dei singoli, i cinque torinesi sfoggiano un ottima tecnica. Mi auguro solamente che il cantante, Davide Quinto, abbandoni l’idea delle clean vocal e si cimenti sullo screaming, terreno dove dà il meglio di sé. Non rimane che attendere il secondo lavoro dei Manhunt. Se riusciranno a fare chiarezza sul sentiero da percorrere, sapranno dare alla luce un disco di sicuro valore, le capacità ci sono. Purtroppo questo primo disco non convince.
Marco Donè