Recensione: Manifest
Per alcuni gli svedesi Amaranthe rientrano a fatica nel circuito heavy metal, il loro project è difficilmente classificabile ed ascrivibile tout court al recinto metal (soprattutto se chi deve rispondere al quesito ha qualche anno sulle spalle). Al netto della commistione di stilemi power, alternative e metalcore (con l’aggiunta di una spruzzatina di chanel sotto i lobi di Elize Ryd), è proprio l’estrema zuccherosità della loro proposta, unita ad una ossessiva ricerca dei cliché (tutti quelli disponibili su mercato) che per qualcuno risulta stonata, laddove si debba considerare la band una espressione doc della branca metallica. Discettando degli Amaranthe, se si dovesse mantenere un approccio freddamente chirurgico, lucido e razionale, ci sarebbero almeno 112 cose da elencare alla sezione “non ci siamo”. A cominciare dal ricorso a ben tre voci (growl, clean vocals maschili e femminili), tutte utilizzate secondo un’ottica estremamente ruffiana. Tanta quantità, ma quasi fine a se stessa. Il growl di Henrik Englund Wilhemsson a mio gusto e parere “deprezza” sempre un po’ la canzone, perché sulle melodie metal-pop dolciastre degli Amaranthe il growl “cattivone” (un tanto al chilo) ci sta come il parmigiano sullo spaghetto allo scoglio; e per peggiorarlo ulteriormente spesso e volentieri si ricorre pure a metriche sincopate a ritmo di rap, giusto per non lasciar fuori nemmeno quella fettina di audience che puoi acchiappare con l’hip hop. Nils Molin dà vita a delle clean vocals stentoree di stampo prettamente power, mentre Elize Ryd ne incarna la versione più civettuola. Lo schema è sempre identico, con poche eccezioni, Wilhemsson e Molin si spartiscono le strofe in regime di alternanza, mentre il chorus è il regno incontrastato della Ryd.
I ritornelli sono tutti squillanti ed enfatici, ed essendolo proprio tutti tutti, alla fine quella enfasi finisce col risultare leggermente irritante. Durante le strofe il riffettone di chitarra è sempre groovy e stoppato. Se uno mette in fila tutti i possibili stereotipi metalcore, gli Amaranthe non ne saltano uno, roba da manuale proprio, solo che poi la loro formula declina il tutto in composizioni che andrebbero benissimo per Britney Spears, basterebbe sostituire il chitarrone (finto) minaccioso con un sintetizzatore (la loro discografia è piena di esempi simili, pensate a “That Song“, “Boomerang“, “Drop Dead Cynical“, etc.). La qual cosa potrebbe apparire come estremamente disdicevole ma in realtà è perversamente accattivante. I videoclip – siamo già ad oltre una ventina, spalmati su 7 album – sono pieni di mossette e balletti che non sfigurerebbero su Tik Tok. La “struttura canzone” si ripete senza variazioni di sorta, partenza sempre esplosiva col main riff a stendere i binari, il growl nelle strofe si alterna alle clean vocals, il ritornellone ultra pop ed ammiccante appannaggio di Elize Ryd, e poi a 3/4 esatti di canzone c’è lo stacco, solitamente dal sapore vagamente electro, per creare il dovuto pathos prima o dopo il breakdown. Assoli da mettere a verbale: nessuno. Alla fine anche i video finiscono per assomigliarsi tutti, rimane giusto la curiosità di vedere quale ambientazione avranno scelto e quali vestiti avrà indossato stavolta la Ryd.
Nonostante 10 anni di carriera e 7 album, la maggior parte delle canzoni sono interscambiabili tra disco e disco, non c’è stata una vera e propria evoluzione, solo una crescita costante del budget e della rutilante Produzione, oggettivamente impressionante e “larger than life”. Gli Amaranthe da questo punto di vista sono poco coraggiosi, non sembrano minimamente interessati a crescere o sperimentare, non progrediscono in alcun modo, hanno una formula chiara in mente sin dal dal primo disco e la ripropongono in ogni salsa possibile, ad oltranza, dal 2011. Detto tutto ciò, quando al dunque mi predispongo all’ascolto dell’ennesimo album della band faccio una gran fatica a staccare gli orecchi dalle casse; in qualche maniera si viene attratti e centrifugati dal gioiosissimo buco nero amaranto messo in piedi dagli scandinavi. Possiamo elencare tutti i difetti di questo mondo ma rimane un fatto che poi, inesorabile, scatti l’ipnosi, come se all’interno dei solchi digitali degli Amaranthe ci fosse una qualche sostanza dopante, un additivo, l’ingrediente segreto della Coca Cola, in grado di creare assoluta dipendenza. Ogni qual volta mi sono approcciato ad un loro disco, subito dopo la prima (altezzosa) impressione che mi faceva mettere in fila tutti i cliché di cui gli Amaranthe stavano abusando, è arrivata una tale scarica di adrenalina, di entusiasmo, di partecipazione ed energia, da farmi accantonare ogni remora e ritrovarmi a scapocciare, canticchiare e percuotere ritmicamente nocche e calcagni, mettendo a repentaglio anni ed anni di curriculum e ortodossa militanza borchiata.
Si è vero, degli Amaranthe si può maledire tutto ciò che ho scritto, ma personalmente non saprei dire no ad un loro pezzo perché – come per tutti i guilty pleasure che si rispettino – una misteriosa quanto insidiosa stregoneria va a segno, col risultato che diventa letteralmente impossibile sottrarvisi. “Manifest” è l’ultima fatica discografica, uscita il 2 ottobre, e che alla release date conta già 5 videoclip su una scaletta di 12 tracce in totale. Il primo singolo, “Viral“, ha cotto e cucinato immediatamente il tema del momento, la pandemia da corona virus e il lockdown, basta guardare il video (e leggere il titolo della canzone) per rendersene conto. Una instant band capace di macinare tutto, metabolizzarlo e restituirlo al pubblico in tempo reale, stando sempre sul pezzo, segno di grande “opportunismo” ma anche di una vitalità invidiabile. “Fearless“, “Viral“, “Archangel“, “Die And Wake Up“, “Do Or Die” sono ottime e potenti variazioni del rodatissimo trademark Amaranthe; poi c’è “Make It Better“, che avrebbe un potenziale enorme se solo la band non decidesse di giocare sempre (e solo) sul sicuro, facendo soltanto ciò che ci si aspetta da quel marchio, ma osasse invece mettersi alla prova e sperimentare in qualche altra direzione. “Boom!1” (scritto proprio così….) è forse il pezzo più imbarazzante dell’album, con Wilhemsson protagonista ed un’idea di canzone che rasenta la parodia. C’è un nutrito manipolo di special guest su “Manifest” che va da Noora Louhimo (Battle Beast) a Perttu Kivilaakso (Apocalyptica), da Elias Holmlid (Dragonland) a Heidi Shepherd (Butcher Babies), da Jeff Loomis (Nevermore, Arch Enemy) ad Angela Gossow (Arch Enemy). E poi c’è lei, Elize Ryd, che cristiddio…….
Marco Tripodi