Recensione: Manifesto Of An Alchemist

Di Roberto Gelmi - 29 Novembre 2018 - 10:00
Manifesto Of An Alchemist
75

Roine Stolt non ha bisogno di presentazioni: polistrumentista classe 1956, dopo la precoce militanza nei Kaipa è in breve l’artefice della prog-renaissance scandinava negli anni Novanta grazie agli acclamati The Flower Kings (TFK di qui in avanti), con i quali incide una dozzina di album dal 1994 al 2013. In realtà sono più di 200 le uscite che vedono in line-up lo svedese (la cui carriera rasenta la venerazione più doverosa): a sessant’anni può permettersi perfino un improbabile cambio di look e abbandonare i capelli corti che da sempre lo contraddistinguevano… Tornando ai TFK, va ricordato che sono una band prolifica, ma ormai mancano dalle scene da un lustro e i fan hanno iniziato a nutrire delle perplessità circa il prosieguo della band. Meglio indirizzarsi su alternative come The Tangent (che hanno appena pubblicato il discreto Proxy), Karmakanic o i recenti The Sea Within, progetto che vede Stolt a fare da veterano? Quest’ultimo debutto, tuttavia, non è stato dei più convincenti e per certi versi ha bissato il mancato capolavoro con Jon Anderson del 2016.
Difficile al netto negare, dunque, qualche segno d’inevitabile logoramento creativo; ascoltare musica composta e suonata da Roine resta, ciononostante, un toccasana e un atto dovuto per il nostro refrigerio mentale. Ecco, dunque, che l’uscita di un nuovo disco solista con un artwork alchemico e tanti ospiti in line-up (tra cui alcuni compagni di viaggio dei TFK e anche il fratello Michael, il bassista dei dischi più rock-oriented del combo) non poteva non risollevare le attese dei fan.
Va detto subito che Manifesto Of An Alchemist è un’uscita scanzonata, che non si prefigge effetti clamorosi; parliamo infatti di un platter composto in meno di due mesi durante l’estate 2018, con alcune idee prese da outtake di precedenti album, alcuni vecchi di decenni a detta di Stolt, il quale non ha voluto appesantire il processo di mixaggio e rifinitura maniacale del full-length posponendo la data di pubblicazione del disco.
Troviamo, di conseguenza, il lato più genuino di Stolt nei 70 minuti di musica propinati e la sua voce inimitabile ci accompagna come un amico di vecchia data, nei meandri e suo personalissimo modo d’intendere la musica, tra momenti onirici, derive bucoliche e attitudine circense.

Superato un intro impalpabile, è la volta dei dieci minuti di “Lost America”, uno dei brani lanciati in Rete in anteprima. Trattasi di composizione scanzonata, ironica, ma anche ricca di classe. Stolt rilancia il suo animo rock e lo fa richiamando sonorità dei TFK ma senza restarne ingabbiato. Ottimo l’apporto di Reingold e il lavoro delle tastiere, anche se l’assenza di Tomas Bodin non è poca cosa. Compaiono alcune asprezze nel finale che risollevano, altresì, un lungo brano forse su ritmi troppo blandi per essere un opener. Pura poesia l’avvio in pianissimo di “Ze Pawns”, otto minuti che scorrono come se il tempo fosse in stand by. Probabilmente unica pecca è il lungo sample nel finale, che allunga una coda troppo prolissa (ma anche questo rientra nello stile di Roine). “High Road” è la mini-suite dell’album e in essa troviamo tutta la follia prog di Stolt. L’inizio è di quelli folk scandinavi iperglicemici, la voce di Froberg accostata a quella di Stolt rievoca la coppia d’ugole auree dei TFK. I ritmi non toccano mai velocità sostenute, chiari i rimandi agli Yes; c’è da dire poi che Minnemann fa del suo e in parte riesce a inanellare una serie di finezze nel susseguirsi di battute lontane da ogni sorta d’idolatria legata a uno sterile horror vacui.
Segue la magnifica strumentale “Rio Grande”, journey to the hidden corners of your mind che convince con la sua cangiante mutevolezza a rendere mimeticamente il rimescolarsi delle acque di un fiume dal passato arcano. Sembra di tornare agli anni Novanta, quando il re del fiore incantava con il suo accostamento di lisergia e rêverie. Ballad canonica e valorizzata dalla voce clownish di Nad Sylvan, “Next To A Hurricane” non sarà il pezzo più innovativo composto da Stolt, ma va ricordato che nel suo repertorio non mancano simili tracce distensive (come “Chicken Farmer Song”, “Starlight Man”, o “Mommy Leave The Light On”). “The Alchemist” è un altro brano strumentale ammantato di rimandi jazz, con Rob Townsend al sax e Reingold in perfetta veste Jaco Pastorius. Non siamo, tuttavia, sui livelli di “The Devil’s Danceschool”… Prima del gran finale troviamo due pezzi dal minutaggio contenuto. Nulla più che un’idea mai registrata prima “Baby Angels”, falotica lullaby con un falsetto tra il fastidioso e il peregrino; “Six Thirty Wake-Up” vale l’ascolto, invece, per il dialogo tra la 6-corde e il flauto traverso del già ricordato Rob Townsend. In chiusura “The Spell of Money” riprende un tema caro a Stolt (già ricorrente vent’anni fa in “Corruption” e nel nuovo millennio nel disco solista Wall Street Voodoo) quello della critica intelligente alla mania d’accumulo criminoso. I testi sono caustici e ficcanti, tutto scorre placidamente come una serpe pronta a mordere, ma che riesce a trattenersi pur risultando altrettanto pericoloso.
In definitiva l’ultimo album di Stolt lavora per sottrazione ed è la summa di quanto proposta dal chitarrista svedese finora, il tutto condito con una sprezzatura e una fiducia nei propri mezzi che non può lasciare indifferenti. Volendo trovare dei difetti, oltre a quelli già citati nel track-by-track, possiamo dire che il drumwork non è valorizzato in fase di mixaggio e che manca una vera killer song (ha senso sperare in una nuova “Stupid Girl” nel 2018?). Con Manifesto Of An Alchemist Roine festeggia insieme anche i 25 anni della label InsideOut, che quasi coincidono con l’età anagrafica dei TFK. Per questo sarà in tour con gli Spock’s Beard, un’accoppiata di band a dir poco stellare. Chi li conosce non li può snobbare.

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

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