Recensione: Marathon
E finalmente arriva anche il progetto solista di Mark Kelly. D’altronde sono passati “solo” 38 anni dal primo disco dei Marillion e se da una parte Fish, Pete Trewavas, Steve Rothery e Steve Hogarth hanno intrapreso più o meno alacremente attività con progetti musicali al di fuori della band madre, Kelly era rimasto l’unico a non pubblicare ancora nulla a suo nome. D’altronde alla sua grande classe si è sempre contrapposto un carattere abbastanza schivo, nonostante la presenza musicale fosse forte e importante in ogni pubblicazione dei Marillion. Anche in questo caso, per sua stessa ammissione, non ha voluto prendersi tutto il palcoscenico, ammettendo che «Non è propriamente un album solista perché c’è una band dove tutti danno il proprio contributo; ed è per questo che ho chiamato questo progetto Marathon».
Ma chi sono i “maratoneti” convolti da Kelly per il suo nuovo disco? L’ideatore si è circondato di “nuovi” talenti sorprendenti, dal chitarrista John Cordy (fortemente consigliato da Steve Rothery che lo aveva scoperto su YouTube), l’eccellente Henry Rogers alla batteria e il nipote Conal Kelly al basso. Inoltre, scoperto un po’ per caso e assolutamente da tenere d’occhio, il vocalist Oliver M. Smith con un timbro che ricorda fortemente Peter Gabriel (proprio quello che cercava Kelly) ma capace anche di dare un’impronta diversa a seconda delle necessità musicali. I testi invece sono stati scritti dall’avvocato e amico Guy Vickers che ha pienamente superato la sfida catturando lo spirito celato dietro il progetto Marathon.
Il disco si compone di 5 brani, due lunghe suite in testa e in coda all’album, cui Kelly ha dato vita impiegando annotazioni e bozze tra i pezzi non utilizzati dai Marillion e i 3 pezzi centrali scritti musicalmente di suo pugno. L’opener come accennato prima è la suite, “Amelia”, suddivisa in 3 atti, un bellissimo brano che racconta la coraggiosa storia di Amelia Earhart, prima aviatrice donna a compiere nel 1932 la transvolata dell’oceano Atlantico in solitaria. Stiamo parlando di un pezzo puramente neo-prog che si apre inevitabilmente con un tappeto di synth sorretto dall’ottima prova di Smith alla voce e dalla meravigliosa chitarra di John Cordy, che nel finale si prende un corposo assolo di chitarra notevole. A seguire, la delicata ed emotiva “When i fell” ci parla di un amore perduto, in cui prendono forma delle suggestive linee di basso (con rimandi jazz) in un brano per lo più acustico a cavallo tra pop e prog e un assolo di synth sul finale, a ricordarci (nel caso ce ne fosse bisogno) le doti eccelse di Kelly.
L’amore è il leitmotiv anche del successivo brano, “This Time”, che, quasi a continuare il discorso intrapreso con la precedente song, sottolinea come l’essere separati da coloro che amiamo possa paradossalmente rendere i tempi del distacco (“This Time” appunto) più significativi e fertili. Breve ma intenso, il brano risulta piacevole grazie a un songwriting davvero azzeccato e una melodia stuzzicante che cattura da subito l’ascoltatore.
Con la successiva “Puppets”, invece, i Marathon indossano una maschera filosofica e ci propongono un brano che tratta temi quali il libero arbitrio, concetti di determinismo e dualismo cartesiano. Ci pone infine due domande: come facciamo le nostre scelte? E, soprattutto, quanto siamo davvero liberi? Temi che fanno riflettere e che vengono raccontati magistralmente con la musica che non risulta mai pesante od oppressiva, ma sempre fresca e viva, soprattutto nell’ottima interpretazione di Oliver M. Smith che dà sfogo a tutta la sua bravura e teatralità. A metà del brano torna Kelly con i suoi assoli eterei e avvolgenti che duettano stavolta con il suo amico Steve Rothery, ospite in questo stupendo brano.
Siamo giunti quasi alla fine della nostra personale maratona sonora e, con la linea del traguardo all’orizzonte, dobbiamo prodigarci nell’ultimo affondo con la suite in chiusura, “Twenty Fifty One”, suddivisa in 4 atti. Interessantissima proposta quella di narrare il complicato rapporto tra Arthur C. Clarke e Stanley Kubrick nella stesura del romanzo e della sceneggiatura di 2001: Odissea nello Spazio (nel caso voleste approfondire potete leggere qui). Il brano è sontuoso, ricco di tutto ciò che il prog può donarci e i Marathon non si sono certo risparmiati mettendo sul piatto una suite davvero gustosa (gli amanti dei Genesis di Foxtrot non resteranno delusi). L’album si conclude qui, dopo appena 45 minuti, e non vi nascondo che ne avremmo voluto ancora un po’ (speriamo in una seconda uscita ovviamente).
Mark Kelly e i suoi Marathon non hanno certo la presunzione di inventare o innovare nulla, ma riescono a dare alle stampe un lavoro che suona comunque fresco e gradevole, suonato magistralmente e con tematiche a tratti davvero uniche (le due suite in particolare). Kelly si è circondato di artisti “nuovi” per così dire ed è forse stata anche questa la mossa vincente. L’entusiasmo e l’energia si sentono in ogni brano, coadiuvate e gestite però dalla grande esperienza di Kelly. Davvero un bel disco, atteso forse troppo a lungo dai fan dei Marillion, ma come dice il vecchio saggio tra le vette tibetane: non è mai troppo tardi per fare scelte migliori!