Recensione: Marauder
Il 1981 fu un anno fondamentale non soltanto per l’esplosione della NWOBHM, sappiamo tutti che questa affermò il ritorno sulla scene dell’heavy metal sound dopo il periodo punk, ma fu anche l’anno che rappresentò il colpo di coda per un genere morente e cioè il “Southern rock”. Infatti i pionieri Allman brothers band erano ormai una sbiadita copia degli inizi, i Lynyrd skynyrd erano stati colpiti dalla morte del frontman Ronnie Van Zant e la Marshall Tucker band non riusciva più a ricreare la magia di album come “Searchin for a Raimbow”. Il naturale evolversi delle cose portò alcune promettenti southern band ad indurire di molto il suono, accostandosi sempre di più alla nascente scena metal. Fra queste band gli “Outlaws”, i “Molly Hatchet” e soprattutto i “Blackfoot” rappresentavano la frangia più estrema dell’intero movimento. “Marauder” è il disco più roccioso e metal che l’intero Southerno rock abbia mai partorito (naturalmente prendendo a riferimento il 1981 come ultima data). Il sound delle chitarre in particolare si rifà in maniera evidente a quello di band come Saxon e Judas Priest , anche se la miscela sonora è di tutt’altra estrazione visto che i Blackfoot adottano i consueti stilemi Southern: Boogie, Rock’n’roll, Blues e country (quest’ultimo in minima dose), accompagnati dalla potentissima voce di Ricky Medlocke (un “mezzo sangue” americano ed indiano così come altri due membri del gruppo).Ma proprio per le affinità sopracitate i Blackfoot raccolsero i maggiori consensi proprio in Inghilterra come testimonia linfuocato “Highway song live”.
L’inizio è un’autentica bomba, infatti “Good morning” lascia subito intravedere quali sono le intenzioni del gruppo, la canzone risulta essere la più metal dell’album e di southern qui se ne sente davvero poco. Ciò che rende davvero interessante “Marauder” è però la varietà delle soluzioni proposte, infatti “Payn for it” è un sudato “slow hard rock”, come sempre la calda voce di Medlocke cattura per fascino ed emozione. Il vero capolavoro però è “Diary of a working man” : canzone sofferta con un giro di chitarra ispirato e (scusate se mi ripeto) la solita grande prestazione vocale di Medlocke. “Too hard too handle” è un hard rock secco e trascinante (da non confondersi con la semi-omonima “Too hot to handle” degli UFO), “Fly away” è la canzone più commerciale insieme alla conclusiva “searchin” (secondo me perfettamente inutili).
Il finale al contrario è con i fiocchi, perché sia la dura “Dry county” che “Fire of the dragon” sono ottime southern metal songs; curiosità desta infine “Rattlesnake rock’n’roller” dove l’intro con il banjo è suonato dal padre di Ricky Medlocke e cioè Shorty Medlocke.
Tirando le somme si può concludere che “Marauder” è un album piacevole da ascoltare, potente, melodico ed orecchiabile, che nonostante la differenza di genere tra southern e metal risulterà comunque familiare alla maggioranza dei sostenitori del “metallo pesante” proprio per la sua durezza. Potrebbe essere un punto di aggancio tra i due generi che può far riscoprire soprattutti ai più giovani non soltanto una ottima e sincera band come sono (erano) i Blackfoot, ma anche un intero genere: il “southern”.