Recensione: Mare
I Kampfar non sono nati per essere alla portata di tutti. Non perché facciano musica particolarmente d’élite, ma perché ai tempi della loro nascita nessuno si sarebbe aspettato che dieci anni dopo, con un semplice click, il loro tagliente e orgoglioso pagan black si sarebbe potuto diffondere tra i templi di Bangkok o gli indaffarati boulevard di Lima. Il loro viking, pagan, black e folk emana involontariamente un muro di vibrazioni “locali” che ben poche altre band, persino quelle più tendenzialmente nazionalromantiche come Storm o Windir, possono vantarsi di possedere.
La visione di Malicious Records fu al tempo quella di diffondere album allora sconosciuti come Borknagar e Kronet til Konge solamente tra le strade della Scandinavia e tra gli scaffali dei rivenditori europei più intraprendenti – e probabilmente in quel periodo sia Norse che Mellom Skogkledde Aaser risuonavano solamente in qualche stamberga dipinta di sangue di merluzzo lungo le coste sassose di un fiordo dimenticato da dio.
Arrivato il mostro Internet e consacrato l’ormai diffusissimo black metal come forma più sublime dello stesso immaginario nordico che scatenò la fantasia di Wagner, le band norvegesi iniziarono a cedere il passo e a “globalizzarsi”. Fast forward di 16 anni e arriva “Mare”, la comunione perfetta tra tradizione e innovazione.
Stilisticamente collocabile tra il feroce Kvass e il torbido Heimgang, Mare vanta una produzione a dir poco cristallina e del tutto inedita nella storia della band grazie al tocco del re Mida della produzione, Tägtgren in persona. Le canzoni perdono di colpo il ruvido zanzarìo di Norse e scorrono lucide in un letto di bassi, tastiere e percussioni perfettamente bilanciate e audibili fino all’ultimo mid-tempo. Dolk, che non è invecchiato di una virgola fin dai tempi dei proto-Kampfar “Mock“, schiera in campo il proprio ormai riconoscibilissimo scream che perde indiscutibilmente di fascino quando passa dal norvegese all’inglese, tanto che la splendida title track risulta a tratti forzata per via dell’autoimposto uso dell’idioma di Shakespeare. Non è un caso che Mare dia il meglio di sé in alcune specifiche tracce come “Bergtatt” e “Ildstemmer“, in cui insieme alla lingua cambia letteralmente l’universo compositivo e sensoriale: la musica torna avvolgente come ai tempi di Fra Underverdenen, il gelo brutale e abbacinante scatenato in apertura si fonde lentamente in note dalle tonalità notturne e imperiose, lascito di un Ole Hartvigsen e di uno Jon Bekker legati indissolubilmente al suono Kampfar pre-Kvass, più “idilliaco” e meno frastornante.
I numerosi passaggi melodici che impreziosiscono l’intero album aiutano a edificare un ambiente familiare senza cadere nella trappola della ripetitività o della banalità. La terra delle fate dei boschi, “Huldreland“, sussurra parole maliziose agli ascoltatori sulle quali c’è ben poco da sospirare e l’improvviso esplodere delle eco belligeranti di “Blitzwich” spiazza a tal punto da chiedersi cosa potrebbe accadere nella traccia successiva. E questo passare dalla guerra alla pace nello spazio di due canzoni è sempre dannatamente naturale e lineare, come se i Kampfar lo facessero quotidianamente senza nemmeno toccare gli strumenti. Ma il far sembrare facili le cose è una delle espressioni più sublimi del talento, perché la stessa “Mare” si apre con un vero e proprio terremoto, semplice e cataclismico – quel terremoto che, scusate thrasher, scusate deathster, solo il black metal riesce a creare. Un terremoto che squassa corpo e mente, fin nelle profondità dell’anima. “It’s freezing! It’s freezing!!!“
Daniele “Fenrir” Balestrieri
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TRACKLIST:
01. Mare
02. Ildstemmer
03. Huldreland
04. Bergtatt
05. Trolldomspakt
06. Volvevers
07. Blitzwitch
08. Nattgang
09. Altergang
10. Bergtatt (In D Major) (bonus track)