Recensione: Mareridt
“Ma che? Ho messo per sbaglio ‘Sagovindars Boning’ e per qualche strano motivo sono partiti completamente a caso gli ultimi due minuti di ‘Gygralock’?”
È una domanda lecita per chiunque abbia ascoltato e apprezzato questo misconosciuto album della ormai da tempo defunta (o forse no?) band svedese. Ma così non è. Sebbene i gorgheggi di Amalie Bruun nell’opener (e title-track) della sua nuova creatura, “Mareridt”, riportino alla mente in una maniera impressionante due minuti di una pietra miliare del folk, davvero non è così. Anzi. Qui di folk non ce n’è moltissimo, come potrete immaginare. In ogni caso, quei due minuti aprono un platter che è un ritorno molto atteso. Un ritorno atteso da molti. Soprattutto per le controversie che il progetto Myrkur porta con se ormai alcuni anni. Ma di queste controversie parleremo a tempo debito.
Ora è tempo di analizzare “Mareridt”. Un album che non si discosta moltissimo da “M”, debut vero e proprio dell’artista danese. Almeno a livello sonoro. Perché, soprattutto a livello vocale, si discosta e fa decisi passi in avanti rispetto al debut. La prova vocale della Bruun, qui, raggiunge una versatilità impressionante e dona all’oscura proposta Myrkur, diversi strati espressivi in più. E lo si capisce già dalla copertina del disco, decisamente poco black.
Paradossalmente, una ottima scelta è la quasi completa eliminazione dello scream. Rimane predominante nella buona “Måneblôt”, che pure vede un ritornello ipnotico come seconda faccia della medaglia. Rimane in alcuni altri sparuti episodi. Il velo di tenebre cade e mostra un artista in grado di mischiare linee musicali pesanti a linee vocali vellutate e davvero incantevoli. Spesso viene alla mente il nome di Liv Kristine. Non certo quella dei Leaves Eyes, ma quella dei primi e tenebrosissimi Theater of Tragedy. In pezzi come “The Serpent” e “Elleskudt”, la nostra disegna meravigliose linee vocali che illuminano una base plumbea più prossima al gothic-doom che al black.
Altrove appare in solitaria o accompagnato semplicemente da un violino, e va a creare delle ballate di spaore tipicamente ‘nordic-folk’ o neo folk come “Gladiatrix” e “De Tre Piker”.
Ma soprattutto, in due episodi, getta uno strano ponte tra il metal più oscuro e il pop da classifica. Può piacere o meno, ma in questi casi ci si trova innanzi a qualcosa di mai sentito, nemmeno nel female fronted più orientato alle classifiche. Si tratta di “Crown”, che ha vaghi rimandi a Lana del Rey e li sposa alle già menzionate ballate tradizionali nordiche, e soprattutto la meravigliosa “Ulvinde”, già apprezzata come singolo, che mette insieme una musica arcigna, due spruzzate di scream e una strofa killer tipo quelle dei pezzi oscuri dei Cardigans (se la memoria non mi inganna). Insomma, se non fosse chiaro, queste due prove ci piacciono parecchio.
Eppure, nonostante certe uscite ‘ruffiane’, ‘hipster’, o come volete, “Mareridt” è un album fatto e finito, compatto e dotato di una personalità forte che riflette l’artista che ci sta dietro. È inutile girarci intorno, nonostante le molteplici sfaccettature stilistiche che distinguono i vari brani, “Mareridt” mantiene un suo tono specifico, che per di più è lo stesso del debut “M”.
Myrkur è un nome che porta fortuna. Significa ‘oscurità’ in islandese e “Myrkur” è il singolo che ha lanciato la band islandese più famosa al mondo – i Sigur Rós. Ma forse questa considerazione è fuori luogo. In realtà, il disco secondo della strappona dello Jutland fa capire ancora di più, se mai ce ne fosse stato bisogno, che il progetto Myrkur non è black, anche se dal black parte. È invece un ibrido di folk, gothic e black e altre cose che col metal non hanno moltissimo a che spartire. E, pertanto, questo “Mareridt”, non è adatto a blackster incalliti e turedefender, né tantomeno alle loro critiche. Al contrario, è consigliato agli amanti del gothic vero e a chi ne ha le scatole piene di band female fronted costruite con lo stampino (tra l’altro, tra questo album, i Cellar Darling e i Vuur, direi che per il 2017 siamo a posto). È consigliato anche a chi cerca nel metal una qualche innovazione. E, soprattutto, è un disco molto piacevole.