Recensione: Masque
Con “Masque” i Kansas arrivano alla loro terza realizzazione nel giro di soli due anni!!. I precedenti “Kansas” del 1974 e “Song for America” del 1975 già avevano fatto capire di che pasta erano fatti questi cinque ragazzi americani, che nulla avevano da invidiare sia in termini di tecnica che di valore compositivo, alle contemporanee uscite prog inglesi. I Kansas caratterizzavano la loro musica non tanto per la presenza in formazione di un violinista, scelta già operata da diversi altri gruppi anglosassoni (come Gentle Giant, King Crimson e Curved Air) ma soprattutto per la loro impronta sonora, che fondeva la migliore tradizione “prog” inglese e la musica tradizionale americana, con la musica classico-sinfonica. Nella stragrande maggioranza delle composizioni, che nella media superano di norma i sei minuti di durata, i Kansas sottolineano l’aspetto epico e maestoso per l’appunto di derivazione classica, grazie all’ottima chitarra di Kerry Livgren (un grandissimo della sei corde, oggi con Neil Morse, troppo poco spesso ricordato per i suoi meriti artistici) alle tastiere di Steve Walsh ed al violino di Robert Steinhardt. Un’altra particolarità era data dalla presenza contemporanea di due voci soliste, e cioè quella di Walsh, dal piglio tipicamente americano (alla Boston per intenderci) e quella più intima e riflessiva di Steinhardt. Il risultato dei continui intricati passaggi melodici era accentuato da una potente sezione ritmica, che faceva della fantasia il proprio trademark (per quegli anni comunque certamente non una novità)
L’album si apre stranamente con due canzoni atipiche per il repertorio dei Kansas: “It takes a woman’s love” e “Two cents worth”, due pezzi rock abbastanza anonimi che rischiano facilmente di fuorviare l’ascoltatore da quella che è la vera essenza della musica proposta dai Kansas. Infatti già con la terza song “Icarus borne on wings of steel”, arriviamo a quello che è l’autentico manifesto sonoro della band, canzone imponente, incredibile sia negli arrangiamenti che nel tasso tecnico, in cui tutti e cinque musicisti si superano in una prova a dir poco eccellente. “All the world” è un pezzo moderato, dominato da magnifiche melodie, in cui vengono messe in risalto le capacità del violino di Steinhardt; le successive tre canzoni e cioè “Child of innocence”, “It’s you” e soprattutto “Mysteries and mayhem” risaltano il lato più duro del gruppo, molto vicino all’hard rock britannico, ma ancora più vario ed originale. In particolare “Mysteries a. m.” verrà riproposta dal vivo in una versione incendiaria (vedi il live “two for the show”). Il gran finale è costituito dai nove minuti di “the pinnacle”, un’altra grande articolata song, in cui tutti gli strumenti trovano spazio in un contesto armonico unico, come al solito di grande spessore tecnico (oltre che emotivo), senza per questo mai annoiare l’ascoltatore.
Sono sicuro che se “Masque” fosse stato composto per intero da tipiche “Kansas song” sicuramente ci troveremmo davanti ad un altro grande capolavoro di “pomp-prog-rock” (impresa che comunque raggiungeranno con i successivi “Leftovertoure” e “Point of no return”), per questo motivo non posso dare un voto più alto, ma certo è che questo lavoro annovera tra le canzoni più belle che i Kansas abbiano mai scritto e che la musica proposta è di una classe infinita. Cito infine le bellissime lyrics, che spesso si rifanno alla tradizione culturale degli indiani d’America e ad un grande senso di rispetto per la natura, vista attraverso l’analisi della percezione sensoriale. Questi temi erano abbastanza pioneristici per quegli anni, se pensiamo ad un paese dominato dall’economia petrolifera come gli USA, e ben si inquadrano nel bene e nel male in un contesto sociale di grandi cambiamenti anche musicali.
Tracklist:
- It takes a woman’s love
- Two cents worth
- Icarus – Borne on wings of steel
- All the world
- Child of innocence
- It’s you
- Mysteries and mayhem
- The pinnacle