Recensione: Mass VI

Di Daniele Ruggiero - 14 Gennaio 2018 - 7:00
Mass VI
Band: Amenra
Etichetta:
Genere: Alternative Metal 
Anno: 2017
Nazione:
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80

“Mass VI” è la flagellazione sonora del proprio io che, incatenato al macigno del dolore, implora una liberazione differente dall’inequivocabile trapasso. Dal limbo buio e caustico degli Amenra prendono forma innumerevoli frustate suddivise in sei capitoli scritti con il sangue della disperazione.

Le ritmiche cupe e cadenzate sono soltanto l’embrione della creatura che si cela dietro la morte degli animali che costituiscono l’artwork di un disco tanto impetuoso quanto tormentato. L’avvicendamento di un mare in tempesta ad un fiore appena sbocciato è l’immagine che i belgi mettono in scena in questo teatro musicale inerme al presente ma tremendamente incisivo nel parallelismo astratto dei sentimenti.

Le atmosfere pesanti si stringono alle urla senza pace di un’anima sperduta che narra le proprie angosce sull’orlo di un baratro dal quale franano riff taglienti e ripetitivi che incidono la memoria. L’ascolto di “Mass VI” è un’esperienza trascendentale nella quale affiorano i fantasmi che ognuno di noi, nel corso della vita, scaraventa nel pozzo dell’amnesia. Tra le note monolitiche del disco si respirano spesso venti di rabbia pura che rasentano, in alcuni frangenti, la commozione come accade nel territorio desolato di ‘A Solitary Reign’: il brano più rappresentativo di questo microcosmo sonoro inchiodato nell’oscurità.

Il post-metal degli Amenra è ricamato alla perfezione sull’enorme tessuto sonoro che ricopre la sfera sulla quale proliferano uomini senza occhi che sopravvivono aggrappati a corde digitali di inutilità. Il sound creato da Eeckhout e compagni è decisamente raffinato e colmo di pathos: flashback sincopati vengono trascinati dalla  corrente sludge di un fiume in piena caratterizzato dalla densità delle chitarre che addomesticano la mente senza alcun virtuosismo.

Accelerazioni e rallentamenti poetici costituiscono il mondo Amenra che non si discosta dal passato ma, più precisamente, si affina attraverso la trasposizione delle sensazioni più viscerali in codici sonori alquanto toccanti. La voce folleggia nei meandri di “Mass VI” cambiando spesso aspetto: le grida di un pazzo delirante, intrappolato in una camicia di forza, mutano nelle paure pacate di un bambino che delicatamente invoca l’uscita da questo maledetto incanto. ‘Plus Près De Toi’ è la candida sensibilità dalla quale fuoriesce un’antica violenza soppressa, come fosse  magma bloccato da troppo tempo nel ventre dell’anonimato.

Per poco più di quaranta minuti si resta bloccati in una cella di un’alveare: su ciascuna parete è scritta una storia con le lacrime di un vaneggiante predecessore divorato dal continuo ronzio di un mostro mai mostratosi. E così, nello scantinato della follia, si resta disarmati dinanzi al fragore della disperazione, lasciandosi morire come un ratto senza cibo, come un cigno senza acqua, come un uomo senza amore.

 

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