Recensione: Master Of All Times
Paul Chain: mitico fondatore della primordiale incarnazione dei Death ss, del Paul Chain Group, dei Violet Theatre e collaboratore di vari gruppi underground (tra cui i Boohoos, la prima garage band); polistrumentista autodidatta….insomma un vero musicista a 360°, chi non lo conosce vada a fare un sano mea culpa.
Mi accingo ad ascoltare il suo nuovo album inconscio di ciò che mi aspetta.
Memore della prima esperienza nei Death ss e dell’ossequioso rispetto che Paul nutre nei confronti dei Black Sabbath mi aspettavo un album di sano doom di classe, e invece…
Invece mi sono ritrovato ad ascoltare un album ambient, senza l’ausilio di chitarre, estremamente sperimentale e con una (la solita di Paul Chain) attitudine underground. L’aggettivo che per primo mi viene in mente per descrivere questa rehersal è “Intrippante”. Psichedelico fino all’eccesso basato su loop infiniti che mandano in paranoia l’ascoltatore: il vero stoner rock è qui signori (anche se l’ispirazione delle composizioni sembra essere stata aiutata più da un acido che da una canna d’erba). Ho adorato l’album sin dal primo ascolto, anche se non molto attinente con il metal in senso stretto.
Le canzoni sono cinque, tutte simili tra loro: molto lente ed atmosferiche, con una base di basso e batteria, una voce che viene da lontano (come se il microfono fosse in linea in un mondo parallelo), suoni synth di tastiere a fare da tappeto ad inserti di violino elettrico e di flauto.
Le caratteristiche originali di quest’impresa sono: il fatto che è stato tutto improvvisato in studio e che il linguaggio usato da Paul non deriva da alcuna lingua conosciuta.
L’appellativo “the improvisor” che Paul adotta (e che adotterà in ogni esperienza di questo tipo) sta a significare che sia in sala che in sede live la musica è completamente improvvistata. In questi progetti non esiste una vera e propria line up, ma una serie di personaggi ruota intorno alla figura del gran maestro.
Passando alla copertina: l’artwork è di eccezionale fattura in stile liberty fine ‘800 – inizi ‘900, il che rende il tutto ancor più mistico e vintage. Sull’immagine di prima pagina (la copertina vera e propria) campeggia un cerchio nel cui centro vi è la scritta “container 168”. Il sistema container, che è l’evoluzione del sistema Violet Theatre, è un ingegnoso metodo di catalogazione delle varie collaborazioni che Paul ha fatto e farà lungo la sua carriera musicale.
L’opera in questione, seppur molto ostica al primo impatto, è di notevole caratura, più che un album da ascoltare attentamente è un sottofondo musicale da percepire, da sentire non solo tramite padiglione auricolare ma direi sensorialmente. Da avere e da utilizzare in serate psichedelico/ambient.
“…siiii viaggiareee”.
Tracklist:
1. Strange Philosophy Of Life
2. Spiritual Way
3. Inexplicable Inwardness
4. Water Of Verity
5. Hoping For Better Things