Recensione: Master of all Times [Reissue 2017]
Originariamente uscito per la Andromeda Relics nel 2001 e recensito dal collega Alessandro Di Clemente su queste stesse pagine a sfondo nero – di seguito il suo scritto del 5 novembre 2002 – The Improvisor – Container 168: Master of all Times rivede la luce quest’anno grazie ad un’operazione di ripescaggio operata dalla Minotauro Records, gloriosa label italiana che tanto ha dato alla “causa” Paul Chain nel tempo.
Come da copione, l’etichetta di Marco Melzi sforna un prodotto di altissimo profilo collezionistico pregno di qualità: oltre ai cinque pezzi originari di Master of all Times alloggiati nel primo Cd, il secondo, contenente tre tracce bonus, si pone sulla terza facciata di un cartonato digipak a mo’ di galleria fotografica: Paul Chain e Anna Auer, infatti, si propongono in tre diversi scatti color seppia particolarmente evocativi. Il prodotto, poi, si accompagna a un cartonato formato Cd con delle note tecniche minimali afferenti i due diversi dischetti ottici. L’uscita è prevista in soli 500 esemplari e gli otto pezzi presenti sono stati rimasterizzati presso il Priory Recording Studio in Inghilterra da Greg Chandler.
Come già scritto all’interno del mega articolo di dodici pagine su Paul Chain nel numero 31 della rivista Classix Metal di agosto/settembre 2017 a firma di Fulvio Zagato e del sottoscritto, Master of All Times si dimena fra Prog vecchia scuola, jazz e psichedelia tanto che, durante la fruizione della straniante Before the War e la stupenda The End of a Love Conflict, il primo e il terzo dei brani del secondo Cd, ci si assicura un posto in prima fila per un tuffo nei più fulminati anni Settanta. Listening Caos, la traccia numero due, rappresenta un riavvolgimento all’indietro del nastro del tempo: pare a tratti di ritrovarsi, come per magia e con la giusta dose di fantasia, in un club fumoso di Chicago dei primi decenni del secolo corso, ove la durata delle jam session fra i musicisti sul palco era inversamente proporzionale alla pazienza di chi si destreggiava con il mitra, a mantenere attivo il bisiniss e l’ordine all’interno del locale, in rigoroso completo gessato e borsalino, con le immancabili e impeccabili fatalone fra i tavoli da gioco. Autori di questi tre episodi, distanti anni luce dal classico Chain associato al Doom, oltre al polistrumentista di Pesaro, Anna Auer al flauto, Danilo Savanas alla batteria e Simon Giannotti al basso. Paul Chain The Improvisor Container 168 Master of all Times: nel 2001 come oggi una nuova, ulteriore, sfidante e spiazzante modalità di fruizione del Catena-pensiero applicato alla musica…
Alessandro Di Clemente, Truemetal, 5 novembre 2002 – Paul Chain: mitico fondatore della primordiale incarnazione dei Death SS, del Paul Chain Group, dei Violet Theatre e collaboratore di vari gruppi underground (tra cui i Boohoos, la prima garage band); polistrumentista autodidatta… insomma un vero musicista a 360°, chi non lo conosce vada a fare un sano mea culpa.
Mi accingo ad ascoltare il suo nuovo album inconscio di ciò che mi aspetta.
Memore della prima esperienza nei Death SS e dell’ossequioso rispetto che Paul nutre nei confronti dei Black Sabbath mi aspettavo un album di sano doom di classe, e invece…
Invece mi sono ritrovato ad ascoltare un album ambient, senza l’ausilio di chitarre, estremamente sperimentale e con una (la solita di Paul Chain) attitudine underground. L’aggettivo che per primo mi viene in mente per descrivere questa rehersal è “Intrippante”. Psichedelico fino all’eccesso basato su loop infiniti che mandano in paranoia l’ascoltatore: il vero stoner rock è qui signori (anche se l’ispirazione delle composizioni sembra essere stata aiutata più da un acido che da una canna d’erba). Ho adorato l’album sin dal primo ascolto, anche se non molto attinente con il metal in senso stretto.
Le canzoni sono cinque, tutte simili tra loro: molto lente ed atmosferiche, con una base di basso e batteria, una voce che viene da lontano (come se il microfono fosse in linea in un mondo parallelo), suoni synth di tastiere a fare da tappeto ad inserti di violino elettrico e di flauto.
Le caratteristiche originali di quest’impresa sono: il fatto che è stato tutto improvvisato in studio e che il linguaggio usato da Paul non deriva da alcuna lingua conosciuta.
L’appellativo “the improvisor” che Paul adotta (e che adotterà in ogni esperienza di questo tipo) sta a significare che sia in sala che in sede live la musica è completamente improvvisata. In questi progetti non esiste una vera e propria line up, ma una serie di personaggi ruota intorno alla figura del gran maestro.
Passando alla copertina: l’artwork è di eccezionale fattura in stile liberty fine ‘800 – inizi ‘900, il che rende il tutto ancor più mistico e vintage. Sull’immagine di prima pagina (la copertina vera e propria) campeggia un cerchio nel cui centro vi è la scritta “container 168”. Il sistema container, che è l’evoluzione del sistema Violet Theatre, è un ingegnoso metodo di catalogazione delle varie collaborazioni che Paul ha fatto e farà lungo la sua carriera musicale.
L’opera in questione, seppur molto ostica al primo impatto, è di notevole caratura, più che un album da ascoltare attentamente è un sottofondo musicale da percepire, da sentire non solo tramite padiglione auricolare ma direi sensorialmente. Da avere e da utilizzare in serate psichedelico/ambient.
“…siiii viaggiareee”.