Recensione: Masters Of Darkness [EP]
A quattro anni di distanza da “Okkult“, primo capitolo di un’annunciata trilogia da parte degli Atrocity, arriva sugli scaffali questo mini, anticipatore del secondo tassello dell’opera “occultistica di Krull e Bauer (gli Atrocity sono loro, il resto – ovvero Nijenhuis e Streit – sono collaboratori/esecutori provenienti dai Leaves’ Eyes, il giocattolo vichingo con cui si baloccano i due proprietari del marchio). Sin dall’artwork, fosco e crudo, è piuttosto facile immaginare che tipo di assalto venefico ci hanno preparato i tedeschi. “Okkult” è stato significativo in tal senso, dopo quasi un ventennio di carriera trascorso ad esplorare incessantemente stili e generi musicali, gli Atrocity sono in un certo senso ritornati alle origini. Ben inteso, il death metal di oggi non è pedisssequamente sovrapponibile a quello di “Hallucinations” né tantomeno a quello di “Todesehnsucht“, di acqua del Reno sotto i ponti di Germania ne è passata ed i nostri hanno fatto tesoro di tutto il bagaglio di esperienze e maturazione accumulate; tuttavia Alex e Tosso sembrano aver accantonato quasi del tutto ogni cuoriosità e velleità sperimentale per lasciar posto nel proprio songwriting ad una ritrovata vigorìa bellica e devastatrice che non intende troppo perdersi in sofismi, quanto semmai asfaltare con un sound adeguatamente cingolato ogni ostacolo si pari dinanzi.
“Okkult” non era tetragono in tal senso (ma giusto per un 10% eh, si ascolti “Satan’s Braut” in proposito, ultimo rimasuglio del passato fetish-tanzereccio dell’era “Gemini“), mentre il qui presente EP “Masters Of Darkness” non fa prigionieri, quattro tracce granitiche, infarcite di doppia cassa, riffing asfittico, growl maestoso e coralità wagneriane. Premesso che questi 17 minuti sono solo un antipasto e che occorrerà sentire di che pasta sarà fatto il secondo “Okkult“, l’attitudine evidenziata dagli Atrocity targati 2017 è al contempo la loro forza ed il loro limite. Per un ascoltatore totalmente a digiuno della band e della sua biografia i pezzi in questione risulteranno un validissimo acquisto. Formalmente ineccepibili, potenti, tritaossa, “estremi” e tuttavia attenti a non infognarsi in una violenza cieca e sterile ma invece sempre razionale, lungimirante e dall’impostazione – mi si passi il termine – avantgarde. Per un estimatore degli Atrocity invece, qualcuno che ha attentamente seguito la band sin dagli esordi, attraversando con essa periodi variegati, eterogenei e diversissimi tra loro (death, thrash, gothic, industrial, acoustic folk, symphonic), la svolta integralista e monolitica inaugurata con “Okkult” e rirpoposta pari pari in “Masters Of Darkness” potrebbe essere fonte di qualche amarezza.
Il peggior pezzo degli Atrocity è sempre il miglior pezzo di molte band concorrenti, partiamo da questo presupposto per attribuire la giusta caratura ad uno dei gruppi a mio parere più sottovalutati della storia della musica metal. Tuttavia devo ammettere che l’adagiarsi palese di Krull e Bauer su certe sonorità pigre, prive di slanci e di inventiva, sta togliendo qualcosa agli Atrocity, perlomeno per come li avevamo conosciuti sino ad “Atlantis“. Già il secondo tempo di “Werk 80” mi era sembrato indice di minestra riscaldata (il primo disco nel ’97 era stata un’intuizione geniale, assai prima del gran revival coveristico ottantiano anche in ambito borchiato). “Okkult” di suo vantava perlomeno una qualità intrinseca eccelsa, stemperata però dalla assoluta non progressione della band. Con “Masters Of Darkness” lo stallo prosegue. Tutte e quattro le tracce potrebbero tranquillamente essere out-takes di “Okkult“. Mi si dirà che, per coerenza, se di concept stiamo parlando è piuttosto logico che sound ed atmosfere rimagano simili; vero, giusto, ma l’affinità è una cosa, tre album eventualmente fotocopie (se questo è ciò che accadrà) è tutto un altro paio di maniche invece. Chi vivrà vedrà. Qui intanto abbiamo quattro pezzi architettonicamente costruiti con gli stessi identici elementi assemblati nello stesso identico modo. Una lieve sfumatura diversa si coglie giusto nella conclusiva “Devil’s Covenant“, che mette in luce un riffing più heavy e meno cianoticamente death style, ma per il resto le quantità vengono dosate col bilancino di precisione in ogni composizione. Persino ogni ritornello non può prescindere dall’immancabile manifestarsi del coro sinfonico, il quale adoperato una volta stupisce, due volte…si gradisce, tre volte…si ripete, quattro volte…stroppia.
Strumentalmente la band è ineccepibile, la produzione dei Mastersound Studios di Krull non si discute, cattiveria e magniloquenza sono ai massimi livelli e i nostri si fanno vanto anche di aver assoldato per l’occasione la “sound designer” cinematografica di vari episodi della serie Saw (tale Katie Halliday); nonostante ciò, quello che di nuovo manca è lo spirito avventuroso di un gruppo che prima ad ogni nuovo lavoro era capace di lasciare a bocca aperta e disorientare l’ascoltatore. Oggi è tutto molto prevedibile, anche se ben fatto. Mi auguro che l’imminente full-lenght possa smentire la mia rassegnazione, con o senza sound designer (qualsiasi cosa significhi).
Marco Tripodi