Recensione: Mayhem in Blue
Me lo ricordo bene. Circa. Camminavo sul lungomare di Lignano. O forse era una via di Faliraki? Boh, mi sa che così bene non mi ricordo. Ad ogni modo, mi venne da girare la testa verso destra. Vidi onde di 30 metri muovere verso la città. Poi guardai verso il mare di fronte a me e vidi le stesse onde che spruzzavano fino al cielo e sommergere la prima fila di case.
Poi mi sono svegliato.
E credetti fosse finita lì. Poi, durante il giorno, ascoltai con attenzione Mayhem in Blue, nuovo album dei greci Hail Spirit Noir. Lo avevo sentito già il giorno prima, distrattamente, in metro – coprendo lunghe distanze è possibile ascoltare tutto un disco di 40 minuti sui mezzi pubblici. Durante il secondo ascolto però mi resi conto che un verso della title track, pezzo onirico senza senso, reca la frase “I see giant waves reach for the sky”.
A quel punto tutto è stato chiaro. Chiaro come il fatto che Mayhem in Blue, fin dalla sua copertina coi monatti sorgenti dall’acque, è un disco onirico e senza senso. All’inizio non lo diresti, con quella “I mean you Harm” grezza e tamarra, 235 secondi di black’n’roll misto a punk’n’roll su cui si inseriscono mellotron e hammond come se i Black widow si stessero incaprettando i Venom con in sottofondo qualche pezzo dei Darkthrone del periodo tardo. Black’n ‘roll, psychedelia, groove e grezzura, la opener dell’album è un pezzo semplice in cui non si capisce molto, al di là del fatto che qui c’è parecchio da rollare.
Aurelius, stappa le anfetamine, facciamo un giro nell’Interstellar overdrive!
Perché il rollamento, esaurito il breve pezzo iniziale, si esaurisce a sua volta in favore di qualcosa che è difficile da descrivere ma può essere riassunto, ad ogni effetto, in tre parole. Che però non diciamo ora, è troppo presto. In seconda posizione, ad ogni modo, gli Hail Spirit Noir, ci offrono la title track. 8 minuti di atmosfere pesantemente debitrici del prog più oscuro, con una forte predominanza degli strumenti a tasti precedentemente evocati, supportati da una batteria inesorabile, martial indutrial.
Si va avanti così, guidati dallo splendido, comprensibilissimo clean di Dimitris Dimitrakopoulos, che continua a disegnare onde giganti, rosse e assassine, guidate probabilmente dai Riders to Utopia – che per inciso sono anche i protagonisti della terza traccia. Un pezzo breve, eppure mutevole, indefinibile, in cui un po’ di rolling torna a emergere dalla psichedelia – pardon, dalla psichefloydia.
Dove siamo arrivati?
Ah sì, alla quarta traccia, “Lost in Satan’s Charms”. Si apre e si conclude con un sirtaki. E mi par giusto, alla fine, gli Hail Spirit Noir sono greci! Il punto è che nel mezzo ci troverete… ecco quelle tre parole… ora sono chiare e fulgide. E sono Below the Lights.
Il disco degli Enslaved? Proprio lui?
Sì, proprio lui. Il complesso ellenico, e solo con la quarta traccia è evidente, in questo suo terzo disco mischia progressive settantiano e black old school con una grazia rara. Lo si era capito. Quello che si capisce a questo punto, però, è che lo fa in una maniera simile a quella definita dagli Enslaved nel 2003. Cambi di ritmo repentini e profondissimi. Esondazioni di atmosfere settantiane alternate allo space rock degli Hawkwind e alle chitarre di David Gilmour. Sicché, tra quell’intro e outro tipicamente ellenico, troverete l’interstellar overdrive di cui sopra.
Potrebbe bastare? Sì, non fosse che nella successiva “The Cannibal Tribe Came from the Sea”, alla mascherata si autoinvitano anche i Solefald di “Sonnenuntergang in Weltraum”. Tanti nomi illustri dunque, eppure il sound degli Hail Spirit noir, pazzoide, geniale, schizzato, rimane al contempo unico e inconfondibile. Che dire dunque del pezzo finale, “How to fly in blackness”, forse la vera ciliegina sulla torta, con il suo cantato espressivo e sinistro e le sue orchestrazioni oniriche e tenebrose? Nulla, se non che, un po’ storditi da riff lamellari, tastiere ipnotiche e batterie martellanti, sommersi da un mare di colori fluorescenti ed atmosfere ovattate, sospese tra la nostra galassia e quella di Andromeda, ci troviamo innanzia a qualcosa di veramente grosso.
Finito il viaggio, ci si ritrova in una bettolaccia di quartiere, un quartiere grigio e spazzato dal vento, tipo Opatov, a far colazione con una tazza di grog e un panino debordante di crostoni di lardo, al calore dei termosifoni a gas o di 1.000 sigarette accese in un secondo. Cosa ci lascia Mayhem in Blue, terzo disco degli Hail Spirit Noir. Che dire di una band che mette assieme due pezzi indiscutibilmente avantgarde senza quasi usare le chitarre? Parlare di conferme, lo avrete capito, è un eufemismo, parlare di consacrazione, siccome di terzo disco si tratta, comunque prematuro.
Perché la proposta di questi schizzati ellenici vive di contrasti che non tutti possono comprendere, e certamente non vive di compromessi. Certo, si è fatta leggermente più onirica e comprensibile, ciò nonostante i fumi del grog portano alla mente ancora quelle parole. Below the Lights.
Non che questo specificissimo paragone vada a diminuire l’originalità, o meglio, l’unicità degli Hail Spirit Noir. Pur tuttavia i due dischi, quello analizzato e quello che a più riprese sale il cono bergsoniano nella sua interezza, sono legati per divversi motivi: le coordinate sonore, certi cambi di ritmo improvvisi che appaiono forzati, la opener virulenta, la durata e il numero delle tracce. Ma no, la verità è che questo disco (come quello) vede una grande maturazione, pur rapportandosi ad un predecessore illustre come Oi Magoi. Incastona la dissonante voce del gruppo che lo ha plasmato e pone le basi per farlo entrare nell’olimpo dell’avantgarde. E mette già una grossa aspettativa per quella che potrebbe essere la quarta uscita. Nel frattempo, Mayhem in Blue potrà essere riassunto a meraviglia da un verso presente nel secondo album dei nostri:
Hell is a place full of clocks