Recensione: Mean Streets
I like smoke and lightnin’ / Heavy metal thunder
Racin’ with the wind / And the feelin’ that I’m under
Questa strofa di ‘Born To Be Wild’, leggendario brano del 1969 degli Steppenwolf, racchiude l’essenza del primitivo Heavy Metal: potenza e gran velocità per correre nel vento, allontanarsi dal conformismo ed essere sé stessi. E qual è il mezzo migliore per fare questo? Salire su una motocicletta o meglio ancora sulla MOTOCICLETTA: l’Harley Davidson (quella degli Hells Angels di ‘Easy Rider’ film in cui, appunto, ‘Born To Be Wild’ è parte della colonna sonora) simbolo di libertà, che i Judas Priest, altra essenza dell’Heavy Metal, mostrano fieri ancora oggi sul palco.
Gli storici Riot, diventati Riot V dopo la triste scomparsa, nel 2012, del loro leader e fondatore Mark Reale (R.I.P.), con ‘Mean Streets’, nuovo album disponibile dal 10 maggio 2024 via Atomic Fire Records, vogliono ripartire da lì, da poco prima che l’anima dell’Heavy Metal, distaccandosi definitivamente dall’Hard Rock, assorbisse l’oscurità umana per poi riversarla fuori con cruda violenza.
Non a caso, la copertina dell’album, mostra Johnny (o Tior, come pure chiamata la loro mascotte) ed i suoi simili come bikers che “infrangono la legge” frantumando gli ostacoli che incontrano, quali moderni cavalieri lanciati all’assalto (uno di loro brandisce una spada).
Sono tra le band titolate a farlo: esistono ben dal 1975, sei anni dopo la nascita dell’Heavy Metal, se si prende come riferimento la più volte citata ‘Born To Be Wild’ (che, guarda caso, hanno coverizzato in ‘Narita’), o cinque anni dopo se ci si rifà all’esordio dei Black Sabbath (anche se il loro, all’inizio, era definito più come Dark Sound) o, addirittura, solo tre anni, se ci si basa sull’espressione usata da Sandy Pearlman per indicare la musica dei Blue Öyster Cult.
Ci sono anche altre teorie sui natali del nostro genere: le critiche di Lester Bangs, la nascita dei Led Zeppelin e, in tempi più recenti, anche Pete Townshend degli Who ha voluto prendersi dei meriti. Teorie tutte legate allo stesso periodo: fine anni ’60 – inizio ’70, per cui, comunque la si giri, i Riot possono dirsi tra i suoi capostipiti.
‘Mean Streets’ non è una malinconica celebrazione degli inizi; più che altro è un ripercorrere parte della storia dei Riot attraverso brani inediti. “Parte” perché vengono escluse, ad esempio, le fasi sperimentali ed introspettive che si ascoltano in ‘The Brethren of the Long House’ del 1995, in ‘Inishmore’ del 1997 o in ‘Through The Storm’ del 2002 e dei primi tre album (‘Rock City’ del 1977, ‘Narita’ del 1979, e l’immenso ‘Fire Down Under’ del 1981 che gli ha resi evidenti in piena NWOBHM) se ne percepisce sì la grinta e la forza, ma non quel sentore di selvatico che solo quel diavolo di Guy Speranza (R.I.P. 2003) riusciva ad infondere (d’altronde, nella band di “quei” Riot oggi non c’è più nessuno, il musicista più “datato” è Don van Stavern, entrato nel 1989).
Questa primitiva energia viene convogliata in ‘Mean Streets’ insieme alla parte Speed/Power dei Riot, quella di ‘Thundersteel’ e di ‘ Privilege of Power’ (al netto delle sue sequenze più elaborate), per capirsi.
Il risultato è un lavoro che, si può dire, rispetta le ultime volontà di Mark Reale, il quale, prima di essere sconfitto dal morbo di Crohn, aveva ricomposto la formazione di ‘Thundersteel’ e poi pubblicato l’album ‘Immortal Soul’ del 2011.
‘Mean Streets’ è un album epico, orecchiabile e al contempo solido ed essenziale, pieno delle armonie che da sempre contraddistinguono i Riot e carico di quella dinamica metallica in grado di scatenare tuoni e fulmini. È, appunto, una corsa sfrenata in moto verso l’orizzonte.
Primeggiano canzoni veloci e potenti, figlie dirette di ‘Thudersteel’, come l’epica ‘Hail To The Warriors’, la classica ‘High Noon’, dove la Twin Guitars di Mike Flintz e Nick Lee straripano dai solchi, ‘Higher’ e ‘Mortal Eyes’. Queste vengono intercalate da pezzi non esagitati ma potenti e al contempo catchy, come ‘Feel The Fire’, la cadenzata ed epica ‘Love Beyond The Grave’, l’inno ‘Before the Time’, la Title Track, che mette assieme riff d’assalto con altri più cupi e la stradaiola ‘Lean Into It’.
Un album che da una parte può dirsi scontato, la versione “Mark V” dei Riot (la più stabile della loro storia) fa questo da quando si è riunita, dall’altra è semplicemente ed in un’unica parola “bello”, con canzoni magari non significative ma trascinanti e coinvolgenti, piene di pathos e di voglia di ruggire, con un grado compositivo e tecnico altissimo.
Concludendo, ‘Mean Streets’ è un album che non stanca, con canzoni emozionanti che pretendono di essere cantate … la rivolta, a distanza di quasi cinquant’anni, è ancora in atto … numero “V” in fondo o meno i Riot sono ancora tra noi.
‘Mean Streets’ è stato registrato in vari Home Studio della band in Michigan, Texas e New Jersey, ed è stato mixato da Bruno Ravel mentre la masterizzazione è stata curata da Bart Gabriel.